Che dire a una donna a cui son morti il marito e gli unici due figli? La si può forse consolare? Tragedie di questo tipo sono capitate e capitano tuttora. Capitano a donne nella martoriata Ucraina, capitano in tante altre parti del mondo. Sono capitate a Noemi secoli fa, ai tempi della Bibbia, all’era dei giudici. Il nome Noemi significa “dolcezza” ma dopo essersi trovata vedova, senza figli, sola e avanti negli anni, lei volle essere chiamata Mara, “amareggiata”. Comincia in modo drammatico uno dei libri più lieti della Bibbia. Il libro di Rut.
Nei primi 5 scarni versetti c’è carestia, emigrazione, rottura di tradizioni, tre morti. Ken Follet ne avrebbe fatto un romanzo di 600 pagine. Poi il racconto cambia registro. Diventa un sorriso di tenerezza fra le pagine del testo sacro. Ecco quello che accade prima della svolta. Una carestia mette a dura prova il popolo di Israele. Elimelec emigra in terra di Moab con la moglie Noemi e i due figli. Come mai? Per salvarsi dalla scarsità di cibo e acqua? Forse. Ma alcuni commentatori rabbini insinueranno poi che Elimelec emigrò perché era ricco e non voleva condividere i suoi beni con i fratelli ebrei. Il testo comunque non dice nulla di questo. Pare invece bizzarro che Elimelec emigri proprio a Moab, fra un popolo che è nemico giurato di Israele, e che là i suoi figli si sposino con donne moabite. Quindi pagane. Un gesto che avrebbe fatto storcere il naso ai puristi della Torà. Uno schiaffo alla tradizione. Si chiederanno secoli dopo i rabbini: si sa che i ragazzi per le donne perdono la testa, ma perché il padre non si oppose con risolutezza, come era suo dovere fare? Non si sa, ci rimangono solo le illazioni. Tutto è sepolto nel silenzio del tempo. Quel che il racconto dice è che Elimelec morì, che il figlio Maclon morì (il suo nome in ebraico ricorda “malattia”) e che il figlio Chilion morì (il suo nome ricorda “sterminio”). Orpa e Rut, le loro due mogli, rimasero vedove. Noemi, che a quel punto aveva cambiato il nome in Mara, decise di tornare in terra d’Israele, nel villaggio di Betlemme da cui proveniva. Orpa salutò la suocera e, pur tra le lacrime, rimase fra la sua gente. Rut invece non volle lasciare la suocera. Noemi-Mara le fece presente che non aveva un futuro da offrirle, che per una moabita l’accoglienza in Israele, nelle migliori delle ipotesi, sarebbe stata gelida. Ma Rut non volle sentire ragioni. Le rispose più o meno così: «Dove andrai tu, andrò anch’io, il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio». Punto.
In questa frase c’è la svolta del racconto. Da qui in poi il tema portante non è più la disgrazia, ma la fedeltà. Le due donne partirono. A Betlemme, non furono rose e fiori. C’era da aspettarselo. Per racimolare qualcosa da mangiare Noemi si appigliò a una norma che sarà poi codificata in Deuteronomio 24, 19: «Quando facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova». Questa usanza è praticata anche da popolazioni arabe, tra le quali è conosciuta come «legge dell’angolo del campo». Noemi mandò quindi Rut a spigolare dietro ai mietitori, durante la raccolta dell’orzo. Quello che loro non raccoglievano lei avrebbe potuto portarlo a casa. Meglio di niente. Ma il caso volle – dice la Bibbia con ironia, dato che sostiene per mille e più pagine che il caso non esiste -, il caso volle che il campo in cui Rut andò a spigolare fosse quello di Boaz. Un lontano parente di Noemi. Che era comunque il più prossimo e che, secondo un’altra legge ebraica dell’epoca, la «legge del levirato», avrebbe avuto il diritto di prendere in moglie la vedova Rut. I due, Rut e Boaz, ignari di tutto ciò, si incontrarono nel campo di orzo. Era l’ora del riposo. Pausa pranzo. Il sole di mezzogiorno era cocente, un disco rosso alto nel cielo. Che impressione fece Rut a Boaz? Ottima, secondo quanto lui stesso disse. Dando un’occhiata al dipinto che farà poi Hayez della moabita, non c’è che dargli ragione. Boaz si fece avanti e la invitò a pranzo: «Vieni, mangia il pane e intingi il boccone nell’aceto». Una proposta del genere oggi farebbe storcere il naso, ma all’epoca dei fatti era più che accettabile. Tornata a casa Rut raccontò tutto a Noemi. Che capì al volo che avevano tra le mani un’occasione da non perdere. Si fece audace. À la guerre comme à la guerre. Disse a Rut che per la festa di fine mietitura, che ci sarebbe stata quella sera, doveva agghindarsi al meglio, e appena si fosse fatto buio, doveva infilarsi sotto la coperta dove Boaz avrebbe dormito su un covone di orzo. La Bibbia, che sempre ama chi è intraprendente e fa qualcosa invece di lamentarsi, approva l’ardire della donna. E liquida quella notte con poche parole. Noi curiosoni vorremmo saperne di più. I risultati però non si fecero attendere. Pochi giorni Boaz e Rut si sposarono.
Questo bellissimo libro di appena 4 capitoli pare tutto umano, un elogio all’uomo e alla donna virtuosi. In esso Dio è nominato raramente, e non parla mai. Ma agisce. In background, si direbbe oggi. Attraverso il caso e dettagli apparentemente banali, guida le vite di Rut, Boaz e Noemi. E continua a guidare anche le nostre, sebbene a volte in un modo che non comprendiamo. Questo libro parla d’amore. Leggendolo sembra di immergersi in un film di Chaplin, in cui non c’è la minima scena erotica, ma tutto il contesto emana un’intensa sensualità. Rut e Boaz ebbero figli, nipoti e pronipoti. Uno di essi è il re David. Da questa donna moabita verrà dunque il Messia. I cristiani credono che sia venuto. Una tradizione ebraica contenuta nella Ghemarà afferma che il Libro di Rut fu scritto dal profeta Samuele, come gesto di affetto verso David che aveva unto re. Quasi certamente non è vero. Ma è bello pensare che questo splendido testo è un atto d’amore.
_
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it
_