Rosario Livatino sarà beato il 9 maggio

Intervista a mons. Carmelo Ferraro, che al momento dell'omocidio del giudice Livatino era vescovo di Agrigento e che incaricò di raccogliere e studiare i documenti che riguardano Livatino per dare inizio al processo di beatificazione il 21 settembre 2011
Il giudice Rosario Livatino

La celebrazione, nella cattedrale di San Gerlando, ad Agrigento, sarà presieduta dal cardinale Marcello Semeraro, con tutti i vescovi di Sicilia. Sull’altare ci sarà anche la camicia sporca di sangue: quella che Rosario Livatino, che domenica sarà proclamato “beato”, indossava quando venne ucciso. Il “giudice ragazzino”, il magistrato integerrimo che aveva posto la sua vita e il suo lavoro “sub tutela Dei”, diventa il simbolo del riscatto della Sicilia.

Alla vigilia della beatificazione i vescovi siciliani hanno diffuso un messaggio: «Dal beato martire Rosario Livatino impariamo che la santità ha il sapore della speranza che non si arrende, della coerenza che non si piega e dell’impegno che non si tira indietro, perché ogni angolo buio del mondo – compreso il nostro – abbia l’opportunità di rialzarsi e guardare lontano», scrivono i vescovi siciliani. E aggiungono: «I due Beati Martiri — il Parroco e il Giudice — hanno parlato senza mezzi termini delle mafie e alle mafie. E così hanno contribuito ad avviare il processo di riformulazione del discorso ecclesiale sulle organizzazioni di stampo mafioso, ma anche di quello rivolto direttamente agli uomini e alle donne che vi aderiscono».

Mons. Ferraro

Quando Livatino venne ucciso, era vescovo di Agrigento monsignor Carmelo Ferraro.

Monsignor Ferraro, lei conosceva Livatino?

Non l’ho mai conosciuto personalmente. Era una persona schiva, non amava mettersi in mostra. Ricordo però che venne da me l’arciprete di Canicattì, monsignor Vincenzo Restivo. Un magistrato gli aveva chiesto un crocifisso per il Tribunale. Gli feci dono di una copia del crocifisso di Cimabue.

Cosa è accaduto dopo la morte di Livatino? Quali sono stati i sentimenti dominanti nella città e nella Diocesi?

L’omicidio destò uno sgomento generale. Canicattì era stata sconvolta due anni prima dal feroce assassinio del magistrato Antonino Saetta e del figlio Stefano. Era iniziata la guerra di mafia. Ci furono centinaia di morti. L’assassinio di Livatino, in pieno giorno, ebbe un testimone: Pietro Ivano Nava. Denunciò subito il fatto, l’omicidio compiuto con feroce infamia e con l’ultimo colpo sparato in bocca alla vittima con la lupara. Don Filippo Barbera, che passò dalla stessa strada poco dopo l’eccidio, gli amministrò i sacramenti. Si seppe tutto di lui: affiorò subito la dirittura morale, l’esemplarità del giudice Livatino.

Abbiamo così saputo che si era formato nell’Azione cattolica, che ogni giorno, prima di iniziare il lavoro, faceva la visita al Santissimo Sacramento nella chiesa di San Giuseppe, vicino al tribunale. Nell’omelia del funerale volli proclamare il mistero pasquale. Il Signore Risorto parteciperà a questo fratello innocente la potenza della sua croce. Al Venerdì santo seguirà “inesorabilmente” la Pasqua del Signore. Questo delitto non sarà l’ultima parola. La potenza del Signore Crocifisso e Risorto porrà su un candelabro di luce, questo innocente fratello umile e silenzioso, discepolo del Signore Gesù. Il mondo guarderà per imparare alla luce del Vangelo cos’è la giustizia e la purezza di cuore, il rifiuto della pena come vendetta, il recupero dei cosiddetti “irrecuperabili”.

 

Parole che oggi sembrano una profezia. Cosa accade dopo?

Il papa Giovanni Paolo II veniva aggiornato su questa tragedia. La Chiesa di Agrigento si mobilitò e il consiglio presbiterale elaborò un testo di catechismo dal titolo “Emergenza mafia in Agrigento”. Il mondo dei giovani fu terribilmente scosso e il giorno della visita del papa, il 9 maggio 1993, volle rappresentare l’immagine di due cortei: quello della “cultura della morte”, tutti vestiti con tuniche nere e con una bara, e quello della civiltà dell’amore, con i vestiti e i colori dell’arcobaleno, che colpì profondamente il santo padre.

 

Lei incaricò la professoressa Ida Abate di raccogliere e studiare i documenti che riguardano Livatino. Fu un lavoro lungo e preliminare che ha costituito la base per il processo di beatificazione. Perché questa scelta?

La professoressa Ida Abate, docente del liceo frequentato da Livatino, ormai in pensione, cominciò a far conoscere nelle scuole d’Italia il giudice Livatino. Dovunque cominciarono a intitolarsi scuole, piazze, biblioteche a suo nome. Nel 1993, le diedi l’incarico di raccogliere testimonianze scritte, il più possibile vicine temporalmente e precise. Era importante far scrivere le esperienze e le testimonianze sulle virtù teologali. Dopo la pensione lei si era dedicata a questa missione: aiutare i giovani ad affrontare il periodo della giovinezza.

 

Cosa le fece decidere di iniziare questo percorso?

Al funerale di Livatino c’era una folla immensa. Anche questo ci diede la consapevolezza che si trattava di un discepolo del Signore, di un giovane che aveva preso sul serio la vita e il suo lavoro. Ci parlò di lui anche il suo insegnante di religione, don Pietro Li Calzi. Abbiamo compreso di trovarci davanti a un discepolo che consente al Signore di continuare la sua storia: «Amatevi come io vi ho amato: da questo sapranno che siete miei discepoli». Quelle parole del Vangelo messe in pratica hanno svelato il disegno del Signore su di lui. Passerà alla storia del terzo millennio un cristiano che ha vissuto in questa maniera. Poi abbiamo saputo della donna che aveva adottato un figlio focomelico, senza braccia: aveva scoperto una malattia al sangue. Gli comparve un giovane in sogno e le disse: «Per questa faccenda non morirai». Solo dopo la donna scoprì che era il volto di Livatino: guarì poi miracolosamente e tutto è stato certificato dai medici.

 

Altri momenti: il 9 maggio 1993. Il discorso della Valle dei templi e l’incontro con i genitori di Livatino…

Avevamo preparato, in due stanze del vescovado, gli incontri con i familiari del giudice Saetta e con i genitori di Livatino e Ida Abate. Il papa ha tenuto le mani della mamma tra le sue, con la tenerezza. Era una donna molto dolce, un’insegnante elementare che aveva saputo educare il figlio. Non ebbe mai una parola di rancore verso i giovani che avevano ucciso il figlio, anzi pensava spesso al dolore dei loro genitori. Anche il padre era un uomo di grande sensibilità: parlò del figlio e di loro che, ormai in età avanzata, si muovevano verso la fine della vita senza di lui. Poi ci siamo diretti verso la Valle dei Templi. Quel momento fu per la Chiesa di Agrigento una coraggiosa testimonianza, una forte riprovazione della cultura della mafia. Conservo il testo dell’omelia del papa. Dopo aver annunciato il Vangelo, c’è quel «grido che sgorga dal cuore», come lui stesso lo definì quando ci recammo a trovarlo a Roma: «Dopo tanti tempi di sofferenze avete finalmente un diritto a vivere nella pace. E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti. Dio ha detto una volta “Non uccidere”! Non può uomo qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, “mafia”, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Vita, Via, Verità e Vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio!».

A distanza di pochi mesi la mafia reagì, con le bombe a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro e con l’uccisione di padre Pino Puglisi. La cultura satanica reagiva.

Il 21 settembre 2011 ebbe inizio il processo di beatificazione. Il 21 dicembre 2020 papa Francesco ha firmato il decreto per la beatificazione. Il mondo presente e quello che verrà conosceranno il giudice Livatino: la sua vita brillerà come una stella.

 

Quale era il suo rapporto con i genitori di Livatino e il suo ricordo di loro?

Li ho incontrati parecchie volte. Suo padre voleva dare un terreno per un santuario a Canicattì. Era un avvocato, ma aveva scelto un lavoro d’ufficio. Era una persona vera che sapeva toccare il cuore.

 

La Sicilia negli ultimi anni ha visto proclamare due beati: don Pino Puglisi e Rosario Livatino. Entrambi vittime della mafia. È un caso o ha un significato preciso?

Ci sono stati centinaia di morti di mafia in Sicilia. La Chiesa ha radici nel Vangelo. Anche se qualcuno usa l’immaginetta e strumentalizza la fede, non ci può essere ambiguità sul messaggio del Vangelo. Il messaggio del 25° anniversario del grido del papa, davanti al tempio della Concordia, propone una parola: «Convertitevi!». È rivolta non solo ai mafiosi, ma anche alla Chiesa e ai cristiani.

 

Qual è l’eredità più importante che Livatino lascia alla Chiesa italiana e siciliana?

Di vivere come i discepoli del Signore Gesù: puri di cuore, misericordiosi, portatori di pace, disposti a pagare per aiutare i piccoli, i deboli, a difendere gli innocenti, a pagare di persona, ad essere insultati. Egli è venuto per darci la pienezza della vita. Le beatitudini sono la carta d’identità del Signore Gesù e dei cristiani che si rispecchiano in lui. Alcuni l’hanno vissuto in pienezza. Tra questi c’è il nostro Livatino.

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons