Ricostruzione: impegno e vigilanza

Li ho visti tutti da vicino gli effetti dei terremoti più devastanti dell’ultimo mezzo secolo nel nostro paese. E uno, quello dell’Irpinia, l’ho quasi vissuto in diretta per essermici trovato in mezzo fin dalle prime ore. Ne parlai allora con dolore e con un poco di rabbia. Dolore e sgomento per l’impotenza che si prova davanti a un fenomeno naturale troppo più forte di noi, che può mietere d’un colpo migliaia di vite, straziare i sopravvissuti, privati degli affetti più cari, dei beni, e dello stesso mondo dentro il quale la loro vita ha messo radici. Perché niente, per loro, sarà più come prima. E rabbia, dicevo, per le valutazioni discordanti sui fatti che già si potevano raccogliere mentre ancora si estraevano i cadaveri da sotto le macerie. Beghe che mostravano quanta poca disposizione ci fosse alla concordia, pure davanti alla dimostrazione di generosità offerta dai soccorritori. Sembra che, in quei momenti, mostrino il loro volto due diverse Italie: quella che si rimbocca le maniche e non conosce pericoli, fatica e sacrifici per correre in aiuto, spesso dando prova di autentico eroismo; e quella che trova il modo di lucrare sopra queste sventure, per mire politiche o per interessi economici. È storia vecchia. Nel Belice – parlo del ’68 – ho seguito soprattutto la ricostruzione. Erano gli anni in cui don Riboldi, ancora parroco a Santa Ninfa, denunciava con coraggio le assurdità di progetti che prevedevano infrastrutture ed edifici pubblici faraonici, mentre lasciavano la gente per anni e anni nelle baracche. Lui era rimasto con loro a condividere il disagio e la protesta. Fu la più plateale dimostrazione dello scollamento fra Roma e la periferia. Oggi apprendiamo che a Poggio Reale ci sono ancora più di trecento appartamenti popolari vuoti, mentre a Santa Margherita, dopo 35 anni ci sono baracche abitate. Il terremoto del Friuli, nel ’76, che fece contare un migliaio di morti e 70 mila senza tetto, sembrò segnare, per come venne gestita la ricostruzione, la fase del riscatto. Il miracolo fu dovuto in parte alla saggia decisione di responsabilizzare partendo dal basso: decentrando cioè ai comuni la gestione dei finanziamenti e facendo di ogni comunità, comprese le parrocchie, dei laboratori sociali. La gente collaborò splendidamente e pretese che si desse la precedenza alla ricostruzione delle fabbriche, per garantirsi il lavoro. Ma intanto, ricordo, avevano fatto di quegli acquartieramenti di prefabbricati dove vivevano, quasi delle città-giardino. Le baracche erano sempre le stesse, ma linde e pinte, senza dimenticare i fiori messi a dimora davanti ad ogni ingresso. Quello dell’Irpinia, dell’80, che coinvolse anche la Basilicata, fu certamente il sisma più devastante, non solo per lutti e danni materiali, ma per il pesante coinvolgimento della malavita organizzata nella fase della ricostruzione, che coinvolse anche settori istituzionali in una faida politica che finì in tribunale. A spese naturalmente della gente che non ne sortì benefici; e del contribuente che vide sparire in un gorgo senza fondo gli enormi stanziamenti erogati dallo stato per la ricostruzione. La storia dell’Umbria è recente e forse più nota: qui il terremoto è stato più esteso nel tempo e nello spazio, ma fortunatamente meno devastante.Tuttavia la particolare morfologia ambientale, vincolata da complessi fattori strutturali, storici ed artistici su cui la burocrazia ha gettato il proprio peso morto, non ha agevolato la ricostruzione. Per la prima volta, e opportunamente, lo stato ha concesso contributi anche ai terremotati che abbiano voluto scegliersi abitazioni alternative. È troppo, ci domandiamo ora, pretendere che da queste lezioni si traggano i dovuti insegnamenti? Per quanto riguarda la tempestività e l’efficacia degli interventi di soccorso, dobbiamo finalmente riconoscere che si sono fatti enormi passi avanti. Ma è nella fase della ricostruzione che, paradossalmente, tutto si ingarbuglia e si blocca. Il governo ha preso impegni precisi e si è dato scadenze certe. Si tratta di rispettarle. Ora, questo terremoto del Molise è risultato abbastanza circoscritto. La gente, lo abbiamo visto, è seria. Ha una tempra tenace. Non si è procurata forse l’agiatezza, ma una vita decorosa, lavorando sodo. Conosce la sofferenza e vuole restare a vivere sul posto. Inoltre porta le stimmate di un grande dolore: il sacrificio di tanti scolaretti e di una maestra nella scuola crollata. Una strage di innocenti che certamente chiama in causa responsabilità prossime e anche remote. Su queste si indagherà. Eppure, è proprio per rispetto a tanto dolore, quasi facendo leva sulla forza morale che la vicenda dei piccoli martiri ha assunto, che si dovrebbe evitare di farsi irretire nei lacci paralizzanti della discordia. Come? Denunciando innanzitutto ogni tentativo di seminare zizzania. Ponendo il bene comune al di sopra di tutto. E, da parte nostra, non distogliendo i riflettori dalla scena che potrebbe popolarsi di sciacalli. Abbiamo visto, leggendo le nuove mappe della classificazione sismica, che, purtroppo, l’Italia è quasi tutta “ballerina”, dal Friuli a Capo Passero. Oggi a me, domani a te. Lo sappiamo. È cosa nostra, allora, non solo l’emergenza, ma anche la ricostruzione e la vigilanza su di essa. E nostra, senza virgolette, significa mia, tua, di tutti, non certo di chi voglia specularci sopra.

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