Religiosi e religioni

Da quando la Dichiarazione Conciliare Nostra aetate del Vaticano II ha segnato una svolta nell’atteggiamento della Chiesa verso le religioni non cristiane, il dialogo con queste religioni è diventato un nuovo orizzonte della missione ecclesiale. Così è stato autorevolmente affermato nella Redemptoris Missio da Giovanni Paolo II: “Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa” (n. 55).

Questa sfida ha coinvolto innanzitutto le persone consacrate. Vivendo in prima linea, tramite i missionari e le missionarie, nelle nazioni dove sono maggiormente presenti queste tradizioni religiose, hanno imparato a stabilire nuovi rapporti, ad aprire nuove strade, a inventare nuove vie per un dialogo che, tante volte, esige creatività, umiltà, fantasia.

Non è una strada facile. Anzitutto perché significa un cambiamento di mentalità. Se il filosofo Roger Garaudy definì con un’espressione forse semplicistica, ma molto efficace, il significato del Vaticano II come la transizione “dall’anatema al dialogo”, per questi uomini e donne di Dio il Concilio ha significato capovolgere l’atteggiamento di fondo.

Non sono stati pochi i missionari che raccontano lo sconcerto iniziale prodotto in loro da quella svolta: dover rinunciare a certe aspirazioni, sempre legittime, che erano state una forte spinta ad andare in missione (“riuscire a convertire e, magari, a battezzare qualcuno”), e intraprendere la nuova via del dialogo. In realtà, però, non fu molto difficile. Tanti di loro avevano già sperimentato che, per la via tradizionale, non si arrivava molto lontano. I frutti erano rimasti scarsi e sofferti. E non poche le delusioni. Probabilmente sono stati di più i missionari e le missionarie che, per la loro sensibilità e per la loro esperienza di vita, hanno accolto quella svolta con gioia e speranza.

Ma non basta cambiare l’atteggiamento. Una cosa è affermare i principi del rispetto, della collaborazione e del dialogo. Un’altra, trovare le strade giuste per mettere in pratica questi principi.

Senza dubbio pesano i secoli di distanza, di coesistenza praticamente impermeabile, che hanno generato inevitabilmente non pochi pregiudizi e stereotipi reciproci. Oggi, però, la globalizzazione ha mandato in frantumi queste frontiere. Troviamo la sfida del dialogo in casa nostra, nei palazzi e nelle strade della nostra città. Le grandi città dell’occidente sono diventate, in pochi anni, un crogiuolo plurietnico, multiculturale, multireligioso. E, dunque, la sfida del dialogo interreligioso coinvolge tutti, non solo coloro che lavorano in frontiera.

Dopo, contano anche le ferite storiche: dalle crociate agli abusi commessi nei tempi della colonizzazione, con la distruzione delle secolari tradizioni religiose e con l’imposizione della propria fede da parte dei vincitori, o la riduzione dei fedeli di una altra fede a cittadini di serie B. Dunque, c’è tanto da risanare.

Dietro queste sfide si nasconde una grande possibilità. Il processo sociale mostra che con la crescita dell’interdipendenza siamo spinti a capirci, a collegarci, a formare “sistema” con tutti, non possiamo continuare a vivere come se gli altri credenti non ci fossero. Non basta la semplice tolleranza o il “laissez-faire”. Le reazioni radicali dei fondamentalisti rischiano di inquinare la possibilità reale di camminare verso una intesa con quei figli di Dio che, tante volte, credono con maggiore convinzione di noi.

Per questo sono molto interessanti le esperienze e gli intenti di quelli che, nella frontiera della Chiesa, cercano nuove vie, aprono nuove strade. Incominciando dalla giornata indimenticabile di preghiera delle Religioni per la pace, promossa da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986, e recentemente ripresa da Benedetto XVI nel 25° anniversario.

Per quanto riguarda i religiosi e le religiose, l’esortazione post-sinodale Vita consecrata  ha chiamato i consacrati ad impegnarsi in questo campo, proponendo alcune vie concrete: la testimonianza e il dialogo della vita; la sollecitudine per la vita umana, attuando la compassione per la sofferenza fisica e spirituale ed impegnandosi e collaborando nella ricerca della giustizia; la pace e la salvaguardia del creato e coltivando opportune forme di dialogo (cf. n. 102). Il dialogo interreligioso costituisce, senza dubbio, uno dei nuovi areopaghi della nostra missione.

È risaputo che il Movimento dei Focolari ha aperto tante nuove strade in questo campo. Forse, essendo portatore del carisma dell’unità, è riuscito a trovare delle vie proprio dove sembrava che fosse impossibile il dialogo interreligioso. Ne danno testimonianza i simposi, promossi dal Movimenti negli ultimi anni, con i buddisti, con gli induisti, con i musulmani, con gli ebrei e con le religioni tradizionali africane.

Per tutto questo ci è sembrato molto utile e fecondo proporre il tema del dialogo interreligioso in uno dei classici forum che “Unità e Carismi” organizza a Roma ogni anno e di cui questo numero riporta i contributi.

Completano questo numero le testimonianze di mons. Luigi Padovese, martire del dialogo interreligioso in Turchia, e di Clemente Vismara, missionario del Pime, beatificato il 26 giugno a Milano.

Infine, due contributi dalla 58° “Settimana ecumenica” che si è svolta a Trento (marzo 2011), per ricordare i 50 anni di impegno ecumenico di Chiara Lubich e del Movimento dei Focolari.

Speriamo che questa immersione nel dialogo interreligioso della vita, lì dove la sfida è quotidiana, e non tra i libri, possa arricchire il nostro sguardo e sviluppare il nostro impegno in questa nuova frontiera ecclesiale.

 

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