Quel silenzio sul Sudan

Dovremmo continuare a parlare dell’Iraq, della sua guerra infinita, delle stragi quotidiane che vi si compiono, e lo faremo presto perché l’insediamento del nuovo governo di Baghdad non si prospetta certo indolore. Potremmo continuare a prendercela con Bush che ha così poco felicemente interpretato la leadership occidentale puntando tutto sulla forza delle armi. O con la stessa Europa, che mentre dilata i propri confini, diluisce i contenuti dell’amalgama ideale che la tiene unita. Potremmo, quasi quasi prendercela anche con Kofi Annan che non trova il verso giusto per mandare un po’ di soldati in Iraq dopo quel gran da fare che si son dati tutti per deliberare l’intervento dei caschi blu. Potremmo, e non lo facciamo, almeno per una volta, perché vogliamo parlare di ciò di cui troppo si tace, se è vero, com’è vero, che sul nostro pianeta un miliardo di persone vivono dentro paesi che sono in guerra e che molti milioni di loro versano in costante grave pericolo. Ci sono popoli di cui a mala pena conosciamo il nome, con i quali non intratteniamo rapporti commerciali, verso i quali, però, abbiamo il dovere di denunciare l’assordante silenzio che copre i loro morti, insieme a quelli di quasi tutte le guerre africane. Perché in Africa, appunto, non c’è solo la regione dei Grandi Laghi dove si continua a morire, non ci sono solo la Costa d’Avorio o la Sierra Leone ricca di diamanti. Ma c’è l’immenso Sudan, dove lo sterminio dei cristiani del Sud da parte degli arabi del Nord, a dispetto di tutti gli accordi siglati, non è cessato mai. E dove ora si aggiunge a quel genocidio una nuova assurdità: l’aggressione subita dai musulmani di razza nera da parte dei musulmani arabi. Una nuova guerra, dunque, che ha già prodotto un milione di profughi. I morti si valutano in più di centomila. Non si contano gli stupri e le altre atrocità che le bande armate, supportate dall’esercito regolare, vi compiono ormai quotidianamente da diversi mesi. La regione è quella del Darfour, una larga striscia brulla, poverissima, nel nord-est del paese al confine con il Ciad, abitata da contadini e da pastori. I primi vi sono insediati da sempre, forse da quando la regione era meno arida; i secondi sono arrivati a contendere le loro terre accendendo la più antica delle faide, quella fra agricoltori e allevatori di bestiame. Qui a innescarla, senza un pretesto economico, perché non c’entra il petrolio, e neppure un pretesto religioso, perché sono tutti musulmani, è stato il colore della pelle, cioè la razza. Musulmani neri sono infatti i contadini di tribù che per secoli hanno costituito un serbatoio di schiavi, e sono ora minacciate di estinzione per mano di altri musulmani, arabi questi ultimi, che hanno assoldato mercenari razziatori per compiere il genocidio. Per ammissione della stessa Onu si tratta di una spaventosa opera di pulizia etnica. La denuncia è stata portata dall’Osservatorio sui diritti umani, i cui rappresentanti hanno percorso per settimane la regione devastata. Il Ciad ha protestato ufficialmente perché deve sostenere l’impatto con un afflusso di centinaia di migliaia di profughi. I Medici senza frontiere sono accorsi, dislocando sul confine i loro centri di assistenza sanitaria. Anche l’Italia ha mandato aiuti in generi alimentari e medicinali. Mentre l’Onu si è limitata a monitorare la situazione, evitando accuratamente di condannare il regime sudanese, come da più parti veniva richiesto a gran voce. Ecco perché, senza dimenticare l’Iraq, che per mille ovvii motivi mantiene sullo scenario mondiale una terribile priorità, ma proprio per poter sperare che anche qui si materializzi al più presto la tanto auspicata presenza dell’Onu, si vorrebbe evidenziare un’esigenza fondamentale, quella di mettere questo organismo internazionale in grado di assolvere ai compiti che gli vengono demandati. Liberandolo dalla morsa dei veti incrociati espressi da chi ne detiene nel Consiglio di sicurezza l’esercizio legittimo, ma non meno assurdo; e quelli sotterranei, ma egualmente determinanti, dei gruppi di potere che pure esistono dentro e fuori del Consiglio di sicurezza. Come il lungo silenzio sui drammi del Sudan emblematicamente dimostra.

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