Petra, la città scolpita

L’antica capitale del regno nabateo, oggi in territorio giordano, è uno dei siti archeologici più sorprendenti che esistano al mondo

Si può aver visto documentari o reportages fotografici a volontà, letto resoconti di viaggiatori antichi e moderni, ma quando ci si trova a tu per tu con le rovine di Petra la realtà supera immensamente le aspettative. La sensazione è di essere capitati in un luogo irreale, di sogno, quali se ne vedono solo in certi film fantasy o del mistero, del genere “le città perdute” (non a caso il sito è stato utilizzato come scenario ideale da più di un regista). Crocevia di molti popoli, l’antica capitale del regno nabateo famoso per la sua opulenza, si distacca da altre città dell’antichità per essere in parte rupestre e per l’impronta della sua architettura monumentale, dove l’equilibrio dell’arte ellenistica si combina con l’esuberanza e il colore orientali. Lo stesso nome Petra, col quale la città era conosciuta da greci e romani, richiama il materiale di cui è fatta, una arenaria color ocra, giallo, rosso e rosa. Qui, lungo i secoli, le acque meteoriche e i venti carichi di sabbie hanno dato agli edifici un tocco non previsto dai costruttori, modellando, levigando, smerigliando pareti, colonne, frontoni e sculture, evidenziando così il loro affascinante cromatismo. Del resto il nome nabateo di Petra, Rqm, significa qualcosa come “giochi di colore”.

Ci arrivi dopo aver attraversato la distesa desertica del Wadi Rum, un luogo così inospitale dove a stento immagineresti un misero villaggio, figuriamoci una popolosa città divenuta prospera grazie alla posizione strategica lungo il percorso delle rotte commerciali che collegavano Oriente e il mondo mediterraneo d’Occidente (testimonia quei traffici il ritrovamento di una stele che reca incisi una carovana di dromedari e una palma). Ti aspetti i ruderi di una cinta muraria e invece niente di tutto questo: per il fatto di giacere in una stretta valle circondata da montagne e colline, Petra era sufficientemente difesa da queste formidabili barriere naturali. Per accedervi bisogna percorrere una tortuosa gola lunga quasi due chilometri dove la luce quasi non penetra a causa delle altissime pareti, e che in certi tratti si restringe a meno di tre metri, per trovarsi all’improvviso – prima avvisaglia di un abitato – ai piedi di una imponente tomba completamente scavata nella roccia, quella detta degli Obelischi. Segue il gruppo delle tombe reali, tra cui spiccano il sontuoso tempio funerario detto al-Khazneh Farun (il tesoro del faraone), il cui ingresso ricorda quello di un tempio greco, e la colossale Tomba del Palazzo, simile a un edificio di più piani.

Non sono le uniche: le pareti rocciose che fanno corona alla valle sono interamente costellate, su diversi livelli, da case rupestri che ricordano quelle di Matera e da monumenti funerari collegati tra loro da rampe, tutti con la facciata rivolta verso la conca interna, dove si estendeva l’abitato. E ciò perché qui i morti, invece di abitare necropoli extraurbane, rimasero sempre a stretto contatto con gli abitanti vivi, quasi loro sorveglianti e custodi, come ad attenuare il senso del distacco.

Stupisce la maestria con cui gli architetti di oltre duemila anni fa scolpirono nella roccia i mausolei monumentali, invertendo i tradizionali metodi di costruzione che prevedono di partire dal basso verso l’alto e procedendo senza possibilità d’errore; e lo stupore cresce quando, sulle pendici della montagna che domina la città da nord-est, ci si trova davanti a quello che, insieme a al-Khazneh, è il secondo monumento più celebre di Petra: El-Deir o Il Monastero, nome che risale certamente all’epoca in cui qui giunse il cristianesimo.

Impressiona l’imponenza della facciata, scavata per una profondità di ben 15 metri. Larga oltre 46 e alta oltre 48, è divisa in due parti ornate da colonne e nicchie: l’inferiore ha al centro l’ingresso che conduce ad una vasta sala interna; la superiore è composta da due strutture rettangolari con al centro una circolare coronata da una copertura a tenda sulla quale si erge un’urna alta 9 metri. Ricorrono anche qui elementi decorativi osservati in altri monumenti della città: colonne con i tipici capitelli nabatei, fregi, frontoni spezzati, triangolari e semicircolari. L’alternarsi poi di vuoti e di pieni, di linee rette e curve, ricorda certi capolavori barocchi del Borromini. Mirabile è anche la conservazione di questo che non fu un mausoleo funerario, ma un tempio, probabilmente dedicato al re nabateo Oboda, divinizzato.

Non è facile esprimere l’armonia che emana da questo complesso, anche se oggi privo delle statue che ornavano le nicchie e della vivace policromia che doveva rivestire la roccia. Qui si tocca con mano come dall’incontro tra popoli e culture diverse nasce sempre qualcosa di vitale, di originale, anche nel campo delle arti, qualcosa che va ad arricchire il patrimonio dell’umanità.

Gli altri monumenti più rappresentativi sono il teatro scolpito su un versante della collina di Zibb’Attuf (sembra contenesse fra i 7 e i 10 mila spettatori), la via colonnata che divide in due la città e – senza segni di ruote di carri sulle lastre di pavimentazione – corre parallela al corso del wadi Musa, il grande Tempio meridionale e il Tempio dei Leoni alati, il mercato, i bagni, i palazzi aristocratici… Ma dov’erano le altre case, quelle della gente comune? Di esse, infatti, a differenza delle abitazioni rupestri, non rimane traccia: probabilmente erano costruite con materiali più fragili come legno e mattoni di fango cotti al sole. Sicché al primo colpo d’occhio l’antica capitale di un regno che venne annesso all’impero da Traiano nel 106 d. C e il cui territorio occupava gran parte dell’attuale Giordania, ma anche porzioni di Siria, Israele, Egitto e Arabia Saudita, sembra sia stata abitata soltanto da divinità e da re.

Sotto il sole abbacinante, nel severo silenzio che incombe sull’arido paesaggio attuale, non è facile farsi un’idea di quale dovette essere tra il I secolo a. C. e il I d.C., epoca del suo massimo splendore, questa città multietnica attraversata da lunghe file di dromedari i cui bramiti si fondevano col chiasso di una babele di lingue, e dove qualunque divinità introdotta da chi con essa commerciava era bene accetta; o immaginare i suoi fastosi palazzi adornati da giardini e piscine, i suoi palmeti e i campi coltivati nei dintorni grazie all’ingegnoso sfruttamento della preziosa acqua disponibile.

Ma ecco che la città si sdoppia. A cinque chilometri da qui, in un luogo detto dai beduini Beidha (la bianca) per il colore della sua pietra calcarea, esiste una Petra in miniatura: Siq al-Barid. Ieri come oggi, una zona ricca d’acqua, destinata probabilmente ad “area di servizio” per le carovane dirette alla capitale. Si tratta di una piccola valle alla quale si accede da una stretta gola di appena venti metri di lunghezza; valle circondata da montagne le cui pendici sono traforate da cisterne e case rupestri. Una di queste, posta a 15 metri d’altezza e risalente alla metà del I secolo d. C., è nota come la “Casa dipinta” per le bellissime pitture che adornano la nicchia del biclinio: scene di soggetto mitologico in mezzo a frutti, fiori e uccelli svolazzanti. Una testa femminile coronata da disco solare e un sistro identificherebbero l’immagine con la dea Iside

Nuove sorprese sono annunciate da indagini satellitari svolte nel 2016 da alcuni ricercatori Usa, che a meno di un chilometro a sud di Petra hanno individuato sotto la coltre delle sabbie i contorni di una enorme piattaforma quadrangolare di metri 56 x 59 per lato, provvista di scalea d’accesso, e di una minore struttura di metri 8,5 per lato. Decisamente l’archeologia a Petra ha ancora un grande futuro.

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