Per la Chiesa futura

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Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me. Gesù estende ora il suo sguardo a tutti i discepoli di tutti i tempi. La chiave della frase è la parola. Sarà essa a trasmettere il mistero del Cristo, sarà essa il mezzo principale, se non l’unico, per fare nuovi discepoli. Dice il vangelo infatti: Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura (Mc 16,15). E per mezzo della parola che nasce la fede. Dice Paolo: La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo (Rm 10,17). E per mezzo della parola che Gesù ci ha fatto conoscere tutto quello che ha udito dal Padre suo (Gv 15, 15). E la parola del Padre, incarnata nel Cristo, viene trasmessa intatta e con uguale vigore nella parola dei primi apostoli e dei loro successori. Noi, credenti di questo secolo, possiamo, in maniera altrettanto diretta dei contemporanei del Cristo, avvicinarci al Verbo incarnato, per mezzo della predicazione della chiesa. Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. Perché tutti siano una cosa sola. È una frase collegata col versetto precedente, dove Gesù prega anche per coloro che per la parola degli apostoli avranno creduto in lui. È perciò la Parola che ci fa uno. Unità delle nienti attorno alla potenza unificante della Parola che è Cristo. Questa Parola passerà lungo il corso dei secoli, attraverso le culture più varie, potrà aprirsi a molte interpretazioni, ma rimarrà sempre una e farà uno quelli che la accoglieranno. Un’altra caratteristica di questa unità è che mentre, per esempio, nelle scuole filosofiche per rimanere uniti basta non allontanarsi dalle intuizioni fondamentali del maestro, l’unità cristiana è vitale. È unità della mente e del cuore, è famiglia. Tutti. Indica la più assoluta ed ampia universalità senza eccezioni di razze, di popoli o nazioni, senza eccezioni di classi o di livelli culturali. Nel versetto, tutti è legato a una sola cosa. Sono due note caratteristiche della chiesa: la cattolicità e l’unità. Paolo ribadisce questa vocazione cristiana all’unità quando scrive agli Efesini: Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti (Ef 4,4-6). Nel v. 21, per tre volte troviamo la congiunzione finale perché o affinché. Il primo, affinché tutti siano una sola cosa ci parla dell’unità dei credenti resi così dalla Parola che è Rivelazione. Il secondo affinché lo troviamo in affinché siano anch’essi in noi una sola cosa. È l’unione sublime, quella dei credenti con le tre divine Persone. Da ultimo, nel perché il mondo creda che tu mi hai mandato, si afferma che questa unità è motivo di credibilità per l’umanità intera. Ma torniamo al cuore del v. 21. Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola. Il modello dell’unità è la mutua immanenza delle tre Persone della Trinità, ciascuna delle quali è nelle altre due, secondo la formula di san Fulgenzio, fatta propria dal Concilio di Firenze: II Padre è tutto nel Figlio, tutto nello Spirito Santo; il Figlio è tutto nel Padre, tutto nello Spirito Santo; lo Spirito Santo è tutto nel Padre, tutto nel Figlio. Ebbene, per sublime che sia questa realtà, noi dobbiamo, accoglien- dola, sforzarci di modellarci su di essa, cioè essere una cosa sola fra noi. Accanto a Giovanni, è Paolo che parla di questo mistero così profondo, dell’immanenza reciproca dei fedeli. Scrive ai Romani: Noi siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri (Rm 12,5). Ma non basta l’imitazione a darci il senso delle parole di Giovanni; vi dev’essere da parte dei fedeli uniti una misteriosa partecipazione della vita trinitaria. Essa ha due aspetti: per il primo, i singoli cristiani sono in comunione col Padre e con il Figlio suo, Gesti Cristo (cf. Gv 1, 3); per il secondo, i fedeli possono realizzare la reciproca comunione gli uni con gli altri. Dice infatti il v. 21: Siano anch’essi in noi una cosa sola. Partecipando così alla vita divina, possiamo vivere qui in terra la vita trinitaria, non solo nel suo aspetto intellettuale di mistero, ma anche nella freschezza della vita. Ed è la vita che testimonia e illumina. Infatti si dice: perché il mondo creda. L’unità nel mondo lacerato e diviso è come un potente miracolo di luce, spiegabile solo divinamente, e per questo dimostrerà che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Che cos’è questa gloria della quale si parla e che viene donata affinché siamo una cosa sola come il Padre e il Figlio? Vari autori ritengono, e mi sembra a ragione, che si tratti qui della gloria della natura divina del Cristo, Figlio di Dio, la gloria della filiazione divina. Questa è la gloria che egli ci comunica, facendo così partecipare alla sua filiazione tutti gli uomini che lo vogliono, rendendoli così uno, come dice il prologo di Giovanni: Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati (Gv 1, 12- 13). La gloria consiste perciò nella comune filiazione divina partecipataci dal Cristo, e per la quale siamo fatti una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me. Io in loro e tu in me. Vi sono due immanenze, quella dei credenti in Cristo e quella del Padre nel Cristo, il. quale è così il centro e il mediatore della comunione tra l’uomo e Dio. È una formula meravigliosa che contiene anche quella di Paolo in Cristo Gesù; converge anche in essa l’immanenza eucaristica: Colui che mangia di me vivrà per me (Gv 6, 57). Io in loro . Questa parola fa palpitare il nostro cuore in maniera nuova, in modo divino. Poche volte nel vangelo di Giovanni si sono raggiunti apici cosi alti. Perché siano perfetti nell’unità. Gesù non si ripete, anche se per quattro volte parla dell’unità della sua chiesa. Qui aggiunge: siano perfetti. Queste parole hanno un duplice significato: da una parte ci dicono che un’unità vaga, superficiale, incompleta non è accetta al cuore di Dio, un’unità fatta di sola fede, senza tutta la mente il cuore e le opere, non è sufficiente, non è l’unità che Gesù si aspetta. Essa porta in sé già i germi dello scisma e della divisione. (E, soprattutto, la scarsa unità di mente è la radice di ogni altra divisione). Dall’altra ci dicono che l’unità non può non essere così grande, perché essa è conseguenza della partecipazione al mistero di Dio nella sua vita trinitaria. E il mondo sappia che tu mi hai mandato. Si ripete che l’unità è una testimonianza sicura della divinità del Cristo. Mentre prima si diceva: Perché il mondo creda, qui si afferma: E il mondo sappia. Mentre si conferma l’equivalenza dei termini, viene sottolineato il valore conoscitivo della nostra adesione a Cristo. Non è solo un sentimento del cuore, è un vero atto di ordine intellettuale. E li hai amati come hai amato me. Si introduce il tema dell’amore, che verrà poi sviluppato. L’amore di Dio per gli uomini è qui posto alla stessa altezza dell’amore che il Padre porta al Figlio. Già in Gv 3, 16 si diceva: Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Se gli uomini sapessero di essere amati da Dio così – e che vivendo la vita cristiana ne possono fare l’esperienza -, quante sofferenze, quante afflizioni sarebbero lenite e, al tempo stesso, quale cambiamento repentino verso il bene, nella vita personale e collettiva! Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre. Ritorna questa dolce espressione di intimità e di amore filiale, che da una coloritura tutta particolare al versetto. Voglio. Non bisogna mitigare questa espressione audace traducendola coll’ottativo io vorrei. Durante tutta la sua vita, parlando col Padre, Gesù non aveva mai preso tale accento. Lo supplicava, lo ringraziava, gli rendeva onore. Ma adesso che sta per morire, parlando di noi, adopera parole di comando. C’è in esse tutto il Figlio, cui il Padre acconsente consentendo a se stesso. È lui infatti che ha amato gli eletti e che li ha dati al Figlio. Quelli che mi hai dato. Il testo greco dice più esattamente: Ciò che mi hai dato. È una formula che si trova di frequente in Giovanni (6, 37-39; 10, 29; 17, 2); indica tutti i fedeli che appartengono al Cristo. Ciò che gli è proprio, Gesù intende salvarlo in modo completo e definitivo rendendolo partecipe della sua gloria eterna. Siano con me. Già da prima Gesù aveva detto ai suoi apostoli, al capitolo 14, w. 2-3: Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. Qui le parole sono allargate a tutti i futuri credenti, che troveranno il coronamento della loro unità sulla terra nella gloriosa festa del ciclo. E questo essere con Cristo è la massima aspirazione del cristiano. Solo così si potrà essere anche con il Padre e con lo Spirito Santo. Certo, già nella fede e nella grazia, su questa terra, si possono pregustare le gioie del ciclo; ma dopo questa vita terrena la gioia sarà completa, infinitamente più grande, poiché potremo contemplare a faccia svelata la gloria del Signore. Perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato, perché mi hai amato prima della creazione del mondo . Questa gloria che i credenti godranno in paradiso e della quale qui si parla, secondo la maggior parte dei teologi e degli esegeti è la comunicazione della gloria del Figlio alla natura umana del Cristo; non si tratta perciò qui della generazione eterna del Figlio. Per questo non si può dire qui che la gloria, quella che mi hai dato, è la gloria della filiazione divina, ma la gloria dell’Uomo-Dio, la gloria del Verbo incarnato che risplende nella sua natura umana, gloria che durante la vita terrena di Gesù era rimasta velata. Poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo. Se l’amore del Padre per Gesù è la causa della sua predestinazione eterna all’unione ipostatica, ne consegue che il motivo dell’incarnazione del Figlio di Dio è Cristo stesso. Spetta a Cristo il primato assoluto nell’ordine della predestinazione. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. Troviamo di nuovo l’invocazione Padre, questa volta accanto all’aggettivo giusto, che sicuramente ha un profondo significato nella preghiera di Gesù. Nel v. 11, infatti, l’analoga invocazione Padre santo chiedeva la santificazione. San Tommaso dice: Adesso si tratta della ricompensa, per questo egli lo chiama giusto. Non si tratta qui, logicamente, della giustizia vendicativa , lo esclude l’accoppiamento con la parola Padre. Secondo alcuni potremmo leggervi un lamento per la durezza di cuore del mondo e per i castighi che attira sopra di sé. Sarebbe come un rinnovarsi del pianto del Salvatore, che quando fu vicino alla vista della città, pianse su di essa (Lc 19,41). Altri interpreti vi vedono un’esaltazione della giustizia del Padre a confronto del mondo ingiusto. Altri ancora, con Lagrange, affermano che è piuttosto una compiacenza di Gesù nella contemplazione della giustizia di Dio. Il mondo non ti ha conosciuto. Il mondo di cui parla Gesù è principalmente quello giudeo, e i suoi capi, i quali, pur conoscendo l’Antico Testamento, e per esso Dio, non hanno riconosciuto il Padre che si manifestava in Gesù Cristo suo Figlio. Aveva detto Gesù: Non conoscete né me né mio Padre; se conosceste me conoscereste anche il Padre mio (Gv 8,19). Ma io ti ho conosciuto. Essendo Dio Figlio unigenito che è nel seno del Padre (Gv 1, 18), Cristo solo può dire di conoscere il Padre di una comprensione totale, di una conoscenza cioè che comprende tutta l’infinita intelleggibilità della divinità. Qui non si tratta però solo della profondità della conoscenza di Gesù, quanto di una riparazione per il fatto che il Padre non è stato conosciuto dal mondo. Questi sanno che tu mi hai mandato . Accogliendo l’origine divina di Gesù, i discepoli hanno al tempo stesso reso omaggio al Padre. Il cardine della frase è la parola tu, come a dire: Sanno che sei tu che mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro E io ho fatto conoscere loro il tuo nome . Tutta la vita di Gesù è stata impegnata nel far conoscere il nome del Padre. Il suo ministero pubblico ha avuto un solo fine: mostrare il Padre. E lo farò conoscere. Questa ulteriore conoscenza avverrà e con i fatti che debbono ancora accadere e con l’invio dello Spirito Santo come guida a tutta la verità. Perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi. Si possono fare due considerazioni: a) perché il Padre possa abbracciare nel medesimo amore il Figlio unigenito e noi, occorre che siamo conformi all’immagine del Figlio suo (Rm 8, 29). Nella misura in cui noi riproduciamo in noi stessi i tratti di Gesù, il Padre troverà in noi le sue compiacenze. Così il suo amore per il Figlio si partecipa a tutto ciò in cui egli scopre un riflesso del suo raggio. Questo non vuoi dire che l’amore di Dio non ci tocchi in modo personale, ma che questo amore del Padre sia per noi la partecipazione del mistero trinitario alla nostra vita; b) l’amore può essere visto in due fasi successive: un amore iniziale e universale che è all’origine di tutte le grazie; con questo amore Dio ama il mondo e, in virtù di esso, invia il proprio Figlio. Ma c’è anche un amore filiale e definitivo; ed è questo l’amore che si chiede qui per i discepoli, l’amore che Gesù desidera che resti per sempre in essi. E un amore che, iniziando in questa vita, trova il suo compimento nell’eternità. E io in loro. Coronamento sublime di tutto il discorso dell’unità: Cristo in noi e noi in Cristo. E la partecipazione piena alla vita divina. Quale legame ha però questo e io in loro con quanto era stato detto prima? Le opinioni fondamentali si possono ridurre a tre: b) per altri autori, tra i quali emerge sant’Agostino, la presenza di Gesù in noi non è tanto la conseguenza dell’amore del Padre per i discepoli, quanto la causa dell’amore del Padre. Sarebbe come dire: essendo essi una sola cosa con me, Gesù, io in essi, per questo motivo puoi estendere, o Padre, a loro l’amore eterno coi quale mi hai amato; c) altri separano questa affermazione io in loro dal resto del versetto e la considerano un’esclamazione d’amore a sé stante, intesa ad esprimere la mutua immanenza di Gesù Cristo in noi e di noi in Cristo Gesù, inclusione e sintesi sublime dell’intero discorso dell’unità.

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