Papa Francesco condanna l’inferno dei campi di detenzione in Libia

Nell’anniversario della sua visita a Lampedusa nel 2013, papa Francesco nella Messa celebrata a Santa Marta ricorda i campi di detenzione della Libia perché, afferma, è inimmaginabile quello che si vive laggiù: Gesù, ha detto il pontefice, chiede di farli sbarcare.    

«Penso alla Libia, ai campi di detenzione, agli abusi e alle violenze di cui sono vittime i migranti, ai viaggi della speranza, ai salvataggi e ai respingimenti. “Tutto quello che avete fatto… l’avete fatto a me”». Dei campi profughi in Libia «ci danno una versione “distillata”. La guerra sì è brutta, lo sappiamo, ma voi non immaginate l’inferno che si vive lì, in quei lager di detenzione. E questa gente veniva soltanto con la speranza e di attraversare il mare». Sono passaggi dell’omelia pronunciata da papa Francesco in ricordo della sua visita, l’8 luglio del 2013, a Lampedusa.

Il suo primo viaggio in Italia, sullo specchio di quelle acque che fornirono le coordinate essenziali del suo pontificato più volte ribadite con slogan essenziali: «Prima gli ultimi»; «La realtà si capisce meglio e si vede meglio dalle periferie che dal centro»; «Il punto di vista degli ultimi è la migliore scuola».

Papa Francesco pone al centro la grande sfida del nostro mondo basato sulla cultura del benessere che genera la globalizzazione dell’indifferenza da superare con la globalizzazione della solidarietà e della fraternità.

Anche mercoledì lo ha ribadito. Possono, forse, apparire esagerate, le parole del papa. Ma sa che attorno alla parola “migranti” si gioca il futuro del nostro Continente. Quale la visione politica necessaria? Che tipo di società costruire? È l’uomo al centro del bene comune?

Parole di straordinaria attualità perché di migranti – anche se continuano a morire nel Mediterraneo e ad essere violentati, uccisi, torturati sfruttati come merce su cui guadagnare -, se ne parla sempre di meno. Un’emergenza accantonata di fronte alla pandemia, anche se nel mondo l’1% della popolazione mondiale continua a migrare, 80 milioni in un anno.

L’approccio del papa è sempre umano, guarda l’uomo, non i numeri, ma i drammi personali appresi dalle notizie che gli giungono e di un problema mai veramente affrontato e risolto.

Brandelli di storie, nel corso del nostro lavoro, li apprendiamo soprattutto da persone che hanno accolto a casa loro bambini e ragazzi rimasti soli. Lydie della Costa D’Avorio è figlia di una violenza sessuale. Il padre è sconosciuto, la mamma non è mai tornata da un compound da cui si era allontanata per una commissione. Un giornalista ha notato questa bambina abbandonata ed è riuscito a farla arrivare in Italia. Ora sta bene, vive con una famiglia che l’ha accolta, e può immaginare di nuovo un futuro. Sono migliaia i casi del genere che ci interpellano.

Ed è il silenzio su questi drammi ad offendere. Basterebbe ricordare che «in ventidue milioni – scrive Paolo Rumiz ne Il filo infinito – siamo partiti tra Otto e Novecento per cercare fortuna all’estero. Ventidue milioni di italiani in mezzo secolo significa una nave con mille persone al giorno, per cinquant’anni di fila».

Una memoria perduta nella nostra quotidianità dove il migrante diventa il capro espiatorio delle nostre frustrazioni. Stamane in un ospedale romano ho assistito a questa scena. Com’è noto nella capitale sono in crescita i casi di contagi da Covid-19 nella comunità del Bangladesh. Nella sala d’aspetto c’era una coppia indiana, ma facilmente confondibile con una del Bangladesh. Lui scuro, lei con un sari arancione e beige. Nel rivolgersi alla moglie, il marito si toglie la mascherina. Succede il finimondo. Un uomo, urlando, gli dice di mettersi la mascherina. Un altro su una sedia a rotelle, anche lui senza mascherina, invoca il fascismo prossimo venturo che presto restituirà l’Italia agli italiani liberandosi dalla feccia dei migranti. Una donna difende l’indiano. L’uomo in sedia a rotelle le dà della comunista. Il siparietto si conclude con il commento: «Una italiana che si mette contro un italiano è il colmo».

Si capisce perché le parole del papa di rimettere al centro del nostro sguardo non l’indiano, l’italiano, il “bangladino”, ma il volto di Cristo siano così attuali: «Protesi alla ricerca del volto del Signore, lo possiamo riconoscere nel volto dei poveri, degli ammalati, degli abbandonati e degli stranieri che Dio pone sul nostro cammino».

Perché, ha aggiunto Francesco, «l’incontro con l’altro è anche incontro con Cristo. Ce l’ha detto Lui stesso. È Lui che bussa alla nostra porta affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato, chiedendo di essere incontrato e assistito, chiedendo di poter sbarcare. E se avessimo ancora qualche dubbio, ecco la sua parola chiara: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40)».

 

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