Omar il lampedusano

Fidandosi di una cristiana tunisina è entrato in Chiesa, trovando una famiglia.
Omar

A piedi nudi, un gradino dopo l’altro. Infine la grande porta a vetri che cede docilmente alla spinta. Nella testa di Omar le parole martellanti di Alima: «Tutte le volte che sarai in pericolo o in difficoltà entra in una chiesa, lì troverai sempre qualcuno pronto ad aiutarti».

Omar è approdato a Lampedusa a fine marzo, durante i giorni dell’emergenza. Ha varcato il sagrato sfinito, senza scarpe, derubato delle poche cose gettate alla rinfusa nel borsone prima di salpare da Tunisi, sull’ennesimo barcone della speranza. Ha dormito all’addiaccio e ha vagato per giorni impaurito prima di seguire il consiglio di Alima. Questa donna tunisina e cristiana lo ha accolto ancora bambino e gli ha fatto da madre: i genitori, divorziati, non si curavano più di lui. Alima avrebbe voluto battezzarlo, ma il papà, residente in Libia, si era rifiutato di firmare il permesso ufficiale.

 

Nella chiesa di san Gerlando, nessuno gli ha chiesto della sua fede. Anzi gli hanno offerto la possibilità di una doccia, dei vestiti puliti, del cibo. Alima aveva avuto ragione. Quando lo ha visto così malconcio, Dario – il giovane diacono – non ha avuto esitazioni e ha chiamato Raimondo e Renata. «La telefonata non era una novità– spiega Rimondo –, in quei giorni casa nostra è stata sempre aperta agli immigrati per una doccia e un pasto. Ma con Omar è stato subito diverso: era timido, riservato. In lui non c’era la spavalderia dell’avventura o la determinazione di tutti gli altri».

 

Raimondo è macellaio e con la moglie lavorava in un piccolo negozio di alimentari, ora chiuso per la crisi. Pur disoccupati, non hanno esitato sull’accoglienza di Omar, diventato il terzo figlio, accanto agli altri due di 12 e 6 anni. Certo, un figlio di vent’anni che parla francese, arabo e inglese e che ha un diploma di maître non se l’aspettavano per nulla. Una pazzia? Un gesto incosciente?

«Se non si aprono le porte a Dio, non si può capire quello che stiamo facendo – racconta. Da poco ci siamo buttati a capofitto a vivere il Vangelo e sentiamo che Dio ci sta offrendo la possibilità di recuperare il tempo perduto. Eravamo lontani, e ci sposeremo a fine maggio, dopo 18 anni di convivenza». Ma mettersi a casa uno straniero non è davvero troppo? Sorride Raimondo mentre lo incalzo: «Io non facevo male a nessuno, non ero cattivo, ma ho capito che non basta. Dio vuole che facciamo il bene e nei giorni tragici vissuti a Lampedusa questa certezza si è rafforzata».

 

Il prefetto, su pressante insistenza della comunità, non ha imbarcato Omar per Manduria e ha concesso un permesso di soggiorno temporaneo. Le disavventure vissute gli hanno procurato dei traumi seri, ma Raimondo e Renata sono certi che con cure adeguate ce la farà. Ora bisogna trovare il lavoro e lui si è già dato da fare: stampa biglietti da visita, etichette, fa progetti grafici, riesumando una sua specializzazione. Intanto sono cominciate le lezioni di italiano o meglio di dialetto, e «lui non se la cava male» – assicura Raimondo mentre lo ascolta pregare in lampedusano, assieme alla gente che riunita nel salotto di casa recita la novena del mese di maggio.

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