Oltre le colonne d’Ercole

Par ieri quando, all’approssimarsi della fine del secolo, si chiamavano in causa le fatidiche soglie del terzo millennio quasi fossero Colonne d’Ercole, varcate le quali ci saremmo trovati in una nuova dimensione. Naturalmente si sarebbe trattato di una condizione auspicabile perché positiva, visto che il negativo della nostra storia millenaria ce lo stavamo lasciando alle spalle. La caduta del muro che aveva diviso il pianeta e la conseguente crisi delle ideologie totalitarie; la riconquistata libertà di intere nazioni nel nostro stesso continente, i cui popoli avevano recuperato l’autodeterminazione e la democrazia, facevano intravedere come prossima la possibilità di ridisegnare un’Europa non più solo atlantica. E intanto la globalizzazione entrava nel nostro linguaggio quotidiano come una parola magica: un toccasana che avrebbe consentito all’economia planetaria di fare vela verso un benessere senza più confini. Ci svegliamo oggi, alle soglie del quinto anno di questo nostro terzo millennio, avendo già navigato a lungo oltre quelle Colonne d’Ercole, con una prospettiva alquanto mutata. Il porto delle certezze che abbiamo lasciato alle nostre spalle si è perduto all’orizzonte.Altre difficoltà, altre barriere apparentemente insormontabili ci si sono parate davanti. La spaccatura fra est e ovest si è in parte trasformata in una divisione fra nord e sud del mondo. Non è difficile costatare come una buona metà dell’umanità viva nella precarietà (fame, malattie, arbitrio dei poteri dominanti), senza speranza di poterne uscire con le proprie forze; mentre l’altra metà appare impegnata soprattutto a garantire i propri livelli di benessere e la propria sicurezza. La dilagante potenza economica dell’occidente, specchio di un pernicioso relativismo etico e di un materialismo irrefrenebile, è vista da molte altre culture come una minaccia ai propri valori. Nuovi estremismi, nuove profonde intolleranze hanno preso campo. Il terrorismo è riuscito a incidere sui rapporti internazionali e sulla vita quotidiana; e certo mondo islamico non si è mostrato sordo a questo richiamo. Un non senso, certamente, ma un fatto. Come un non senso è parsa a noi la risposta messa in campo da chi, minacciato, ha reagito con la guerra a quella violenza.Tre anni di conflitto in Iraq hanno dimostrato ampiamente che non si è trattato di una scelta oculata.Tanto più che l’occidente stesso si è diviso nella valutazione degli avvenimenti. Tutto ciò è accaduto giusto nel tempo in cui giungeva a compimento il sogno dell’unificazione del Vecchio continente. L’ingresso dei paesi dell’est, in massima parte già avvenuto, ha aggiunto forze fresche a un organismo stanco che stava ripiegandosi su sé stesso. La nuova Costituzione, appena firmata, ancorché fumosa e contestata per la sua incompletezza, rappresenta pur sempre un punto d’arrivo. Ma proprio questi successi ci pongono davanti a grandi novità: l’Europa non è più, e forse non sarà mai, come l’avevano sognata i padri fondatori, una grande famiglia di popoli e nazioni avviata a diventare un’unica entità nazionale sul modello di altre grandi entità regionali già esistenti, come gli Stati Uniti. È certamente assai meno compatta, meno garantita, ma può al tempo stesso nutrire ambizioni nuove: divenire una comunità aperta capace di offrirsi come modello per integrazioni dinamiche costruite su rapporti di fiducia e di solidarietà appena ieri impensabili. Non è forse vero che poteva sembrare assurdo al suo nascere il patto siglato fra Francia e Germania dopo che si erano combattute per secoli? Non potrebbe dunque proporsi come altrettanto gravida di sviluppi positivi l’apertura che si va oggi prospettando verso un paese a maggioranda musulmana quale la Turchia, nemico storico del nostro continente e, diciamolo senza falsi pudori, radicalmente altro da noi per cultura, religione, razza, costumi? Certo si vedono chiaramente i limiti e i pericoli di questo sodalizio. Noi stessi ne abbiamo parlato di recente. È vero, tuttavia, che l’Europa non è più quel consorzio di popoli cristiani stanziati fra l’Atlantico e gli Urali che per duemila anni si sono combattuti per egemonizzarsi a vicenda, pur invocando lo stesso Dio. Ma potrebbe, anzi dovrebbe riscoprire nel suo Dna quei valori universali che aveva saputo produrre, nei quali affonda le proprie radici innervate nel cristianesimo, liberandosi di quel relativismo etico autodistruttivo che sembra pervadere la nuova cultura politica dominante. Riscoprirli non certo per imporli, ma per offirli come valori che i nostri stessi comportamenti non abbiano del tutto svuotati. È una questione di coerenza di vita più che di costituire un gruppo di pressione attorno ad un cristianesimo ridotto solo a cultura cristiana. Più i cristiani sapranno essere coerenti nei loro atti, più l’universalismo della cultura europea avrà la possibilità di offrirsi alle altre culture.

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