Per non dimenticare i curdi

Nella catena di disinformazione propria a ogni guerra, la vicenda dei curdi rischia di rimanere una macchia sporca nella coscienza dell’infosfera

In Libano ci sono ancora più di un milione di rifugiati dalla guerra di Siria. Molti di loro hanno trovato una sistemazione all’estero e sono partiti chi in Italia, chi in Francia, chi in Australia. Ma la stragrande maggioranza di questo esercito inerme ancora s’agglutina negli interstizi del territorio e delle città libanesi. In Italia sarebbe una presenza equivalente di 20 milioni di profughi, visto che il Libano ha 4 milioni d’abitanti.

Capita così d’incontrare ora un abitante della Ghouta, ora di Idlib, ora di Afrin, le città dove in queste settimane si sta combattendo con più forza e cinismo, in “sacche” di combattimenti dove l’inferno è tangibile. Si tratta di territori limitati ai bordi dei quali gli eserciti e le milizie dei gruppi e degli Stati protagonisti delle diverse guerre siriane (perché di questo si tratta) stazionano, chiudono accessi, chiudono soprattutto gli occhi sulle scene di drammatica quotidianità sofferte da tanta gente, i deboli, coloro che ancora non se ne sono andati.

Il presidente turco Erdogan.
Il presidente turco Erdogan.

L’apparenza spesso inganna: nella guerra siriana le alleanze si fanno e si disfano, tengono solo i grandi assi – Siria di Assad-Iran-Russia da una parte, Arabia Saudita-Usa-Israele dall’altra –. La Turchia è in fondo un free player, un battitore libero, che s’allea con chi conviene e quando conviene. In questo momento ai turchi è stata lasciata la possibilità di occuparsi del “loro” problema curdo, di combattere in territorio siriano i «terroristi» del PKK (il Partito dei lavoratori curdo, impiantato soprattutto in Turchia, i cui simpatizzanti nel Kurdistan siriano si fanno chiamare PYD, Partito dell’unione democratica), colpendo direttamente le basi di retroguardia del gruppo armato curdo che Erdogan vede come il fumo negli occhi. Dopo uno scontro diretto con le truppe di Assad, un nuovo accordo è stato trovato con russi e siriani, che si sono ritirati al confine della regione di Afrin e bloccano le vie di fuga ai curdi.

«La nostra gente vuole sicurezza, non ce l’ha coi turchi né coi siriani, vuole solo vivere in pace, se possibile su una terra che appartenga al suo popolo, ma da troppi secoli siamo costretti ad adattarci a tutto, e così non cerchiamo più nemmeno l’indipendenza».

A parlare è un lavoratore curdo di Afrin, un artigiano, che incontro in un laboratorio dove lavora con altri 30 concittadini, a Beirut. «A casa mia – prosegue – ho lasciato tanti parenti di cui non ho più notizie. So solo che circa 200 mila curdi si sono spinti a Sud, verso la frontiera controllata e bloccata dai siriani e dai russi, a Nubl e Zahraa. L’unico aiuto viene loro da qualche funzionario della Croce Rossa, ma è poca cosa. Fa freddo e i telefonini non funzionano quasi più, quindi non sappiamo nulla o quasi». Altre fonti parlano di 750 mila curdi in fuga.

Protest against violance on Kurdistan

Ha gli occhi rossi, Hamoudi – questo il suo nome –, forse non ha dormito o forse è commosso. Il suo cellulare riceve messaggi in continuazione, «ma quasi tutti sono di provenienza libanese, dal Rojava (cioè dal Kurdistan siriano) arrivano poche notizie, quasi sempre negative, con la morte dell’uno o dell’altro, la distruzione di un villaggio, la scomparsa di persone». Mi spiega come il popolo curdo-siriano sia diviso fortemente tra i sostenitori del PKK e chi invece vorrebbe smarcarsi, soprattutto i simpatizzanti del PDK (Partito democratico del Kurdistan), che sono più pacifici nei confronti della Turchia. «361 villaggi sono stati distrutti, donne e bambini scappano mentre gli uomini rimangono, quelli che non sono stati fatti fuori. Con grave pericolo, perché i turchi cercano ad uno ad uno i simpatizzanti del PKK per farli fuori (c’erano spie già da anni ad Afrin, intente a redigere le liste dei partigiani del gruppo per la liberazione dei curdi), e talvolta, purtroppo, anche tra curdi ci si denuncia al nemico pur di salvare la propria casa, la propria famiglia». È la storia triste di tutte le guerre.

Hamoudi mi mostra la foto di un suo zio, uno dei vecchi capi del PDK, imprigionato dai curdi del PKK. «I turchi sembra vogliano rinchiudere, quasi in una prigione a cielo aperto, i simpatizzanti del PKK in una zona montagnosa, per non avere infiltrazioni al confine con lo Stato turco. Certo, siamo tutti indipendentisti, tutti vogliamo l’indipendenza per le nostre terre, ma dobbiamo scendere a compromessi per non scomparire. Dobbiamo sapere aspettare il momento opportuno».

E così i curdi, peraltro divisi al loro interno, stremati dalla lunga guerra contro il Daesh che hanno sostenuto spesso da soli con le loro milizie, o quasi, mentre i grandi eserciti internazionali non si sporcavano le mani più di tanto nei combattimenti, ora si ritrovano di nuovo, per l’ennesima volta, ad essere perseguitati dai turchi e bloccati dai siriani, mentre le grandi potenze osservano senza battere ciglio. E chi li aiuta? Nessuno, proprio nessuno.

 

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