Napoli, città teatro

Napoli

24 giorni all’insegna della pluralità delle lingue e delle culture. La seconda edizione del Napoli Teatro Festival Italia ha esplorato, oltre alla scena del mondo, anche i luoghi fisici della città. Eccoci allora con Monaciello, dell’inglese Andy Arnold, scendere nel ventre di via Chiaia, a 40 metri di profondità. Un viaggio che ci riporta alla guerra del 1944, facendoci rivivere l’angoscia dei rifugiati nelle viscere oscure e umide dei sotterranei per sfuggire ai bombardamenti.

I Muta Imago con Napoli. Primo passo nella città di sotto ci conducono in un altro sotterraneo degli antichi decumani. Nel buio assoluto rischiarato dall’oscillare di lampade, sentiamo dapprima respiri, rumori di passi; poi vediamo definirsi ombre che avanzano e indietreggiano. Donne in nero, incorporee, che evocano presenze luttuose di leggende scaturite dal mito delle Malombre uccise per colpe sentimentali. Anime in pena di una performance di suggestivo impatto.

Tra gli spettacoli più applauditi Interiors. Lontano dal perverso voyerismo televisivo, quello teatrale di Interiors dello scozzese Matthew Lenton è uno sguardo malinconico e divertente, in un interno domestico che, a sua volta, ci spinge dentro quello più interiore dei personaggi. Assistiamo ad una cena fra persone riunite in una gelida notte nordica, spiando dentro la grande vetrata della casa. Non udiamo le parole, ma capiamo i loro dialoghi dalle azioni che compiono, dalle gag e dai gesti che determinano le loro relazioni. Il commento fuori campo di una donna che comparirà come un fantasma, ci svelerà le vite di questo consorzio alla ricerca di calore umano.

I personaggi della goldoniana Trilogia della villeggiatura sono invece alla ricerca di un’identità, smarrita nell’affannoso e frivolo attaccamento al rito dell’apparire. La geniale e visionaria mano di Antonio Latella rilegge, con la riscrittura di Letizia Russo, quello smodato indaffararsi di una comunità con un occhio contemporaneo ricco di immagini e movimenti, facendone un capolavoro. Nel primo dei tre atti sostituisce la parola villeggiatura con “buffonata”, a indicare il senso dei loro ridicoli atteggiamenti. La bianca pedana costellata di botole come trappole o luoghi di rifugio, con sedili da stazione ferroviaria spostati a vista, è dominata da enormi lampadari ingabbiati. Perché è la luce, intrappolata, accesa in sala, sparata frontalmente dai fari accecanti, che ci mostra e svela i loro veri sentimenti. Attori italiani e tedeschi del cast bilingue, da elogiare in blocco.

Ha deluso Alberi adagiati sulla luce di Adonis. Il bel testo del poeta franco libanese, dedicato a Napoli, è risultato privo di forza nella messinscena statica del regista Franco Scaldati. Tra le suggestive rovine all’aperto del Real Albergo dei Poveri, i versi sono declamati da un affollato mondo di straccioni sognatori. Ma non evolvono in forma drammaturgica.

Appaluditissimo Waiting for Orestes: Electra del regista giapponese Tadashi Suzuki. Il mito greco di Elettra viene calato in un ospedale psichiatrico dove tutti i personaggi, compreso il coro, si muovono su delle carrozzelle. Il segno della malattia dell’uomo di oggi e dell’atrofizzazione dell’anima è reso potente come un grido di aiuto, da attori assolutamente straordinari.

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