Monete, moniti e valori

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Ti mostro delle monete africane , mi dice Ciro con entusiasmo, suscitando in me una vibrante curiosità. Mi aspetto una serie di dischetti di metallo, magari irregolari, consumati, dalle effigi quasi irriconoscibili, e invece rimango stupito nel vedere degli oggetti che sembrano vere e proprie sculture d’arte. Queste sono antiche monete africane! , sottolinea Ciro per togliermi ogni dubbio. Sorretti da una asta fissata su una base, fanno bella mostra di sé scuri oggetti di metallo consumato dal tempo. Di varie fogge, richiamano utensili legati al lavoro della terra. In realtà, il mio stupore è soprattutto dovuto al fatto che queste monete sembrano far parte della produzione artistica di Ciro. Quante volte, infatti, egli mi ha fatto vedere un vomere, una zappa, un cardine, un’ascia, le cui forme erano belle in sé. Tutto questo mi introduce in un mondo che non conoscevo. E così mi immagino dei personaggi africani, avvolti nei loro sfarzosi vestiti colorati, maneggiare queste monete per trattare l’acquisto di bestiame, di alimenti o… perché no? di una moglie. Dopo l’iniziale periodo del baratto, l’uomo ha usato come moneta ossa di animali lavorate, zanne, conchiglie: oggetti di particolare bellezza e resistenza. Moneta come oggetto che esprime un valore, dunque. Nella storia di Babilonia si fa riferimento a pesi fissi d’argento, sostituiti poi da pesi di rame e quindi di bronzo, dalla curiosa ed enigmatica forma d’anitra. Nell’antica Grecia le prime monete erano nientemeno che degli spiedi di ferro lunghi poco più di un metro, che venivano dati inizialmente come compenso ai giudici per il loro lavoro. In seguito, anche i semplici cittadini poterono fruire di questo tipo di moneta. Ogni spiedo, detto obelos, permetteva di ritirare parti di carne delle vittime immolate agli dèi. Il nome obelos mutò poi in obolos che diventò l’unità monetaria della Grecia. Passa qualche giorno e rimango sorpreso nel vedere la quantità e la varietà di monete che Ciro ha realizzato nel frattempo. Erano quegli stessi oggetti, fermi negli scaffali da tempo, in attesa di trovare il loro posto in una nuova composizione. Eccoli, ora, innalzati su uno stelo o appoggiati su un supporto neutro a mostrare tutta la loro regalità. Queste sono le nostre monete, i nostri valori!: e queste parole di Ciro mi inducono a considerare come la cosiddetta crisi dei valori, oggi davanti agli occhi di tutti, coincide anche con una forma di monetizzazione che riproduce, in certo senso, le tendenze e i modi della nostra civiltà occidentale dove le attività mercantili sono nettamente disgiunte dalla poesia e dall’arte; dove la meccanicizzazione ha estromesso impietosamente la bellezza della contrattazione sofferta, sudata e, comunque, fautrice di rapporti umani; dove la realtà ha lasciato il posto all’astrazione. Basti pensare al nostro denaro. Che cos’è? Banconote e monetine povere anche nella loro componente estetica, assegni bancari e card magnetiche sempre più anonimi e uguali a sé stessi, fino a diventare quella forma virtuale – e quindi senza forma – di mercanteggiare che è il commercio elettronico. La moneta oggetto che richiama, ricorda (e quindi valorizza) il lavoro dell’uomo, il sudore della sua fronte, è sempre più lontana dalla nostra esperienza quotidiana. A questo proposito è emblematica la storia di quell’uomo che in fin di vita raccoglie attorno a sé i figli ai quali comunica di aver sotterrato nel campo un grande tesoro. I figli pensano a scrigni e forzieri, e alla morte del padre iniziano una febbricitante ricerca, senza però trovare ciò che cercavano. Ma ecco, in estate, il campo trasformarsi in una messe dorata di bellissime spighe. Capiscono così la lezione del padre: il vero tesoro è stato proprio il lavoro delle loro braccia. Chissà perché, mi torna alla mente un famoso aiku. Quello in cui si narra di un uomo il quale, in profonda contemplazione della luna piena, viene derubato nella sua casa. Egli se ne accorge, ma la sua reazione è di completa commiserazione per il ladro, che si è accontentato di pochi poveri beni quando avrebbe potuto possedere addirittura… la luna! Che dire poi della dote che una promessa sposa doveva un tempo donare al marito? Era, se vogliamo, anche quella una forma di pagamento, ma quanto ricca di bellezza, di pudore, di tacite promesse. Cerco moneta sul vocabolario etimologico e scopro che questo nome viene, secondo i più, dal tempio eretto nel Campidoglio a Giunone Moneta o ammonitrice (così detta da monere, avvertire, perché si credeva avesse annunziato al popolo un grave flagello, onde si premunisse), entro al quale si era stabilita la zecca romana. Quindi il nome dal luogo sarebbe passato per metonimia al denaro coniato, e tale si conserva. Altri ritengono che la terminazione eta sia più greca che latina (vedi poeta, cometa, pianeta) e tragga direttamente dal greco monytès, indicatore, designatore, monitore…. Interessante poi scoprire che pecunia deriva da pecus, bestiame, gregge. Il compito di un artista è anche quello di evidenziare cose che altrimenti i nostri occhi distratti non saprebbero vedere. Penso a Ciro. Bello, commovente (perché vero) questo suo farsi portatore di valori, creatore di monete, di moniti. Senza che egli lo voglia, diventa ai miei occhi un ammonitore, colui che avvisa, che ammaestra. Un po’ come la dea del Campidoglio dei nostri giorni che, delicatamente ma inequivocabilmente, suggerisce come premunirsi contro il flagello della massificazione, della globalizzazione indiscriminata e a senso unico.

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