Metti una sera al Colosseo

Qualche settimana fa, l’Anfiteatro Flavio, meglio noto al mondo come Colosseo, ha vissuto una notte davvero particolare. Per la prima volta nella storia, tra quelle rovine millenarie sfiorate dalle urla dei gladiatori, la Musica è riuscita a trasformare un’icona di delirio e di dolore in un luogo di pace e di speranza. La storica stretta di mano tra Shimon Peres e Mohammed Rashid ha fatto ovviamente il giro del mondo, ma anche lo straordinario cast artistico ha dato il proprio contributo a rendere memorabile la serata. E a chi – come il sottoscritto – ha avuto la fortuna di costruirla e di viverla dietro le quinte, restano emozioni tanto difficili da archiviare quanto da raccontare. Cast di altissimo livello, ma stilisticamente assai variegato e trasversale. Se Ray Charles ha garantito all’evento il prestigio e l’appeal che solo uno dei padri della musica moderna poteva garantire, le emozioni più intense sono arrivate soprattutto dove l’incontro tra culture e prospettive ideologiche era delicato fino al limite dell’azzardo. Penso all’israeliana Noa e al palestinese Nabil, e li rivedo scherzare insieme – da vecchi amici quali sono – durante le prove di Imagine, con quel mattacchione di Khaled a parodiare le sciantose napoletane insieme al Solis String Quartet. O all’emozione di un monumento vivente della canzone latinoamericana come Mercedes Sosa, a ritrovarsi a cantare Gracias a la vida in un contesto tanto particolare: “Mai mi sarei immaginata che Dio mi facesse un regalo così bello, e in un momento tanto difficile per la mia Argentina”, mi fa abbrancando Noa per una foto ricordo. Per non dire della serba Bilja Krstic e di Dino Merlin, “il Ramazzotti di Sarajevo”, a cantare insieme e riscoprirsi, dopo le ovvie diffidenze preliminari, addirittura amici di infanzia: nel loro abbraccio si intuiva tutto il dramma dell’ex-Jugoslavia, ma anche il lento cicatrizzarsi della ferita. Proprio come sta accadendo nella Kabul cantata da Farhad Darya, altra perla nascosta in fondo al pozzo dell’odierna world-music. C’è poco da fare: la musica è un balsamo capace d’arrivare prima e meglio di qualunque discorso programmatico. E di generare, talvolta, anche piccoli miracoli: come vedere un premio Oscar come Nicola Piovani al servizio di un’étoile di fama planetaria come la Fracci, o gli sconosciuti sudafricani Bongo Muffin’ a rappare di gusto su Pride degli U2, arrangiata per l’occasione utilizzando un quartetto d’archi, per l’ugola rockettara della svedese Carola. Nel nome della pace ciò che poteva essere semplicemente un disordinato pinzimonio di suoni è così divenuto un unicum di armoniose complementarietà. Banditi per una sera capricci dello star-system e gli ostruzionismi di manager e discografici, Time for Life ha dato voce e sostanza alla voglia di pace degli uomini del Terzo Millennio. Perché di uomini e non di nazioni s’è parlato e cantato al Colosseo, senza bandiere né steccati ideologici, accomunati solo dalla volontà e dalla fatica di chi sa che solo dal basso possono partire le radici del dialogo e della fratellanza. Che altro dire allora, senza correre il rischio di ungere tutto con insopportabili retoriche trionfaliste? Forse solo che ciò che abbiamo visto e sentito è una piccola goccia nell’oceano, ma – come diceva il saggio – l’oceano è fatto di gocce. Con la speranza che, anche da questa fiera dell’egocentrismo che è il music-business, presto altre se ne aggiungano… LIGABUE FUORI COME VA? Wea. Se è vero, come molti sostengono, che il Liga canta da anni la stessa canzone, è altrettanto vero che questo è esattamente ciò che chiedono le centurie dei fans: quel ruspante intruglio di rock’n’roll alla piadina, innaffiato di Lambrusco e storie semplici, filosofie stradaiole, inquietudini da Bar Sport all’ora di chiusura.Tre accordi, un vocabolorio ridotto ai minimi termini, e la capacità di cantar la vita senza fronzoli. Questo è Ligabue da Correggio, e questo continuerà probabilmente ad essere. Ma il disco funziona, e in due o tre episodi le canzoni hanno quel non so che capace di trasformarle in piccoli classici: da cantare a squarciagola sui pullman delle gite, o nella nebbiosa solitudine di un’ennesima notte padana. AA.VV WOW – GOSPEL 2002 Zomba. Che l’etichetta principe del pop planetario apra alla christian-music è il segnale indiscutibile che il genere, almeno negli States, tira alla grande. Ed ascoltando questo doppio cd, si capisce anche perché: talenti sopraffini che nulla hanno da invidiare alle stelle più acclamate, molto mestiere, e budget proporzionati a tentare di agguantare una fascia di mercato tanto vasta quanto sottovalutata. Qui da noi siamo ancora alla preistoria e ai piagnistei, però qualcosa, sia pure con penosa lentezza, sembrerebbe muoversi.

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