Metamorfosi: tra artificio e natura

Volumi trasparenti contengono masse leggere dalle forme complesse di nubi, tagli lineari aprono e deformano la materia simili a dei canyon naturali. Nastri sinuosi si intrecciano e si incurvano a vincere la forza di gravità, le sensazioni materiche si dissolvono in atmosfere cangianti. Immagini non inedite, ma sicuramente mai affermatesi con tale intenzionalità come in questa 9ª Biennale di architettura, dal titolo accattivante di Metamorfosi. In sette percorsi – Trasformations, Atmosphere, Topography, Surfaces, Hyperprojects, Concert halls, Episodes – gli spazi dell’Arsenale e quelli dei padiglioni delle Nazioni ai Giardini agiscono da suggestivo sfondo ai plastici, ai disegni, ai video, alle installazioni; e alle fotografie che danno una rappresentazione sia tecnica dei progetti realizzati o in via di realizzazione e sia teorica su concetti architettonico- urbani. Il direttore della mostra Kurt W. Forster dichiara subito che la selezione dei progetti non abbraccia la totalità delle tendenze e delle idee oggi vive nel campo architettonico (cosa impensabile), ma si rivolge a determinati progetti in cui la più avanzata tecnologia digitale ne ha reso possibile la realizzazione. In particolare sceglie di fare un excursus dagli anni Ottanta ad oggi con pochi ma significativi rimandi ai Cinquanta, come l’Opera di Sydney di Jorn Utzon, la Philharmonie di Hans Scharoun a Berlino e il Padiglione Philips di Le Courbusier dell’Esposizione internazionale di Bruxelles, realizzato insieme all’ingegnere e compositore Iannis Xenakis. Predilige un edificio specifico: la grande sala da concerto, soggetto che mette in relazione l’architettura con la musica, la costruzione con la leggerezza, il dinamismo plastico con l’improvvisazione sonora. Le forme architettoniche si scompongono in una dinamica quasi esplosiva, o avvolgono la struttura della sala da concerto in forme fluide come forme di vita microscopiche. Negli anni Ottanta Frank O. Gehry sognava un’architettura che potesse somigliare a un pesce; l’architetto del Museo Guggenheim di Bilbao pare però un po’ ripetersi allo stesso modo nel Walt Disney Concert Hall a Los Angeles, sicuramente l’evento mediatico più rilevante di questa biennale. Sembra avverarsi il sogno che Sharoun fece cinquant’anni fa: Movimenti vitali non vengano soffocati da una prematura rigidità (…), che non ci sia precipitosa perfezione nemmeno nell’ambito della tecnologia. Invece della perfezione prevalga l’improvvisazione per indicare la strada dell’ulteriore evoluzione. Indubbiamente l’evoluzione del progettare l’architettura, del fabbricarla in questi anni è stata notevole. Software potentissimi possono controllare geometrie altamente complesse superando quello che in fondo era stato il principio fondatore del modernismo: la produzione seriale, che avvicinava l’architettura all’estetica della macchina. Le forme della natura ritornano ad essere la fonte di ispirazione degli architetti. Il disegno manuale mostra i suoi limiti: è incapace di cogliere di getto la volumetria complessa dell’edificio più di quanto non si possa fare con della carta, increspandola, piegandola o strappandola. È così che si ha l’impressione che questi architetti lavorino oggi. Altro caposaldo di questa Biennale è indubbiamente Peter Eisenman, autore anche dell’allestimento del Padiglione Italia. Il suo lavoro appare molto significativo nel dibattito contemporaneo sull’architettura, aprendo un altro filone di progetti che si ispirano alla topografia, alla conformazione naturale del suolo. La materia, nella concezione tradizionale dell’architettura, definisce l’espansione di quest’ultima nello spazio. L’idea nel nuovo millennio è di una espansione della materia che confonde i limiti dell’architettura con quelli della natura, entrando in un rapporto di mimesi con essa. La Ciudad de la cultura de Galicia a Santiago de Compostela nasce dalla forma di una conchiglia, simbolo di Santiago: espandendosi, si confonde nel tessuto urbano- naturale. Superare il più possibile l’artificio e ricongiungersi con le forme organiche della terra è la meta. Questa tendenza alla dissoluzione della materia è molto presente; i materiali usati nella quasi totalità dei progetti esposti confondono il confine tra interno ed esterno, prevale una componente emotiva. Si tende a superare la dissociazione tra struttura portante e riempimento arrivando ad organizzare gli spazi e le funzioni mediante la piegatura di superfici continue che disegnano spazi senza interruzioni. Mancano quasi del tutto idee riferite al tessuto urbano, non si avverte una riflessione su scala maggiore che miri ad inserire l’oggetto architettonico in un contesto esistente. Fanno eccezione le città d’acqua (una sezione distaccata di interventi in città con un diretto rapporto con mare, fiumi o laghi) e le macrostrutture in cui si addensano servizi di ogni tipo. E ancora meritano di essere visti i padiglioni austriaco, tedesco, francese e britannico sia per il buon gusto degli allestimenti che per la qualità architettonica e di idee presentata. Non si può dire certo la stessa cosa dell’Italia che espone solo idee e progetti di spazi interni con il titolo Notizie dall’interno:molta libertà e fantasia, qualità che l’Italia non riesce ancora ad estendere alla progettazione degli edifici. La crisi del nostro paese è evidente. L’architettura italiana manca di qualità e di innovazioni. In quest’epoca povera di profeti per ridare vigore e libertà alla nostra cultura architettonica viene spontaneo guardare un po’ indietro al nostro più importante sostenitore della modernità, Bruno Zevi. E concludendo con lui, cito: Confidate nella modernità più rischiosa che fa della crisi un valore.

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