Zuppi: più vicini alle persone

Cresciuto nell’impegno dentro le contraddizioni delle periferie romane e proiettato a livello internazionale con la diplomazia di pace della Comunità di Sant’Egidio, il card. Zuppi legge il nostro tempo da Bologna, patrimonio di umanità. Articolo pubblicato sul numero di maggio 2020 della rivista Città Nuova

Matteo Zuppi viene dalla Capitale e, precisamente, da Trastevere, «il paese dentro la metropoli», luogo di grande attrazione turistica e sede di quella Comunità di Sant’Egidio da cui proviene. Un movimento nato da alcuni liceali nel 1968 e ora diffuso a livello mondiale. Roma vuol dire intere aree periferiche costrette a vivere il disagio, il saccheggio urbanistico, con vere e proprie piazze di spaccio e una presenza ben visibile della malavita organizzata. È su queste frontiere che si misura la pretesa dell’esperienza cristiana.

Bologna, città pontificia, operosa, laica e “anticlericale”, ci ha messo poco a riconoscere in questo vescovo in bicicletta, in sede dal 2015, un punto evidente di identità culturale. L’immagine simbolo è quella del viaggio ad Auschwitz assieme al cantautore Francesco Guccini. La sua posizione molto chiara si può leggere nel libro dialogo con Lorenzo Fazzini: Odierai il prossimo tuo. Perché abbiamo dimenticato la fraternità. Riflessioni sulle paure del tempo presente (Piemme, 2019).

Quando il papa lo ha nominato cardinale nel 2019, lo hanno accompagnato a San Pietro in 1.500, tra cori da stadio. Ovviamente non tutti saranno d’accordo. Una Chiesa dalla parte degli ultimi e degli esclusi viene accusata di buonismo, di dimenticare la sofferenza di coloro che, costretti a vivere l’impoverimento, rischiano di passare pure per razzisti, se si lamentano.

Nel pieno dell’emergenza della pandemia da coronavirus, ha invitato a ripudiare ogni interpretazione del flagello come castigo divino e a cogliervi, piuttosto, un’occasione per riscoprire l’essenziale ed essere «attenti al prossimo, in particolare al povero, e a chi è nel bisogno».

Cardinal Zuppi, non si rischia che l’opzione per i poveri si riduca a retorica mediatica senza capacità di andare alle radici delle cause delle ingiustizie sociali?
Questa è l’accusa, ricorrente negli anni passati, di fare solo assistenzialismo, il che, poi, sarebbe la corruzione del legame personale e dell’attenzione concreta alla necessità dell’altro. Quando, nei primi tempi, andavo con gli amici della Comunità nelle borgate romane, per esempio a Primavalle, esistevano tanti gruppi attivi sul territorio, che ci accusavano di prestare solo assistenza, mentre loro puntavano a cambiare le cause strutturali delle ingiustizie. Ma, per operare davvero un cambiamento, bisogna sempre partire dalla vicinanza concreta alle persone, cioè avere una visione non riduttiva della realtà. Ogni legame, se è vero, diventa poi idea, progetto, azione. Oggi viviamo un momento particolarmente difficile, perché ci sono poche risorse per rispondere alle necessità di base ed è ridottissima la presenza di coloro che cercano di progettare un cambiamento delle periferie, nel senso di ricostruzione di un tessuto umano. Se si percepisce una mancanza di risposte concrete e di attenzione al bene comune, si genera un misto pericoloso di abbandono e di rancore.

Quel periodo che ha evocato, ricco di tensione politica, vedeva in prima linea molti gruppi di cristiani inquieti che poi riuscirono ad organizzare il convegno del 1974 «sulle attese di carità e giustizia nella città di Roma» che segnò una svolta nell’attenzione alle periferie. È pensiero comune che oggi sono assenti dei soggetti in grado di ripetere un’esperienza simile. Cosa ne pensa?
Quel convegno fu decisivo, perché riuscì a mettere assieme carità e giustizia, necessità di farsi carico delle responsabilità personali e, nello stesso tempo, di individuare le cause delle ingiustizie. Oggi si avverte uno scoramento nell’impegno e si sente la mancanza di soggetti credibili, capaci di attivarsi seriamente per il bene comune. È uno stato di sofferenza che deve fare i conti con un panorama delle periferie radicalmente diverso. Quarant’anni fa incontravamo le famiglie provenienti dai paesi del Meridione, oggi ci sono i nuovi migranti da diverse parti del mondo, con grandi problemi di integrazione e il rischio reale della nascita di lotte tra poveri. Da parte mia ritengo necessario e opportuno, oggi, proporre, non solo a Roma, ma nelle diverse città, un momento, alto e concreto, come fu quello del 1974, promosso dai cristiani, per dialogare in modo aperto e franco con chi pretende di avere la responsabilità del bene comune.

Il confronto del cristiano con la città, e chi la governa, fa venire alla mente un suo predecessore, il vescovo Giacomo Biffi, che definì Bologna come «sazia e disperata». Lo fece nel 1985 davanti ai dati Istat sul numero dei suicidi nella ricca Emilia Romagna, ma era una critica all’egemonia laicista del tempo…
Si trattò di un’espressione che suonò come un campanello di allarme per capire che non potevano essere il benessere e il consumo a dare senso alla vita. Recentemente Pierluigi Bersani mi ha detto che quelle parole furono accolte inizialmente con irritazione, ma permisero, poi, di rendersi conto del venir meno di alcuni punti fermi nel tessuto sociale di una regione che si scoprì, ad esempio, permeabile alle mafie. Noi tutti dobbiamo vincere la tentazione di non voler vedere i problemi e imparare, invece, a giudicarli senza l’affanno di cercarne subito le soluzioni. Affrontare le difficoltà, rende disponibili a superarle assieme.

E questo vale anche sulle questioni delicate in campo bioetico. Non sembra certe volte che non se ne parli per timore di varcare un confine che fa perdere il consenso?
La Chiesa mette sempre al centro la persona e quindi i temi etici della vita e della dignità umana. Su questo si dovrà sempre ricercare il confronto, che non deve essere uno scontro preconcetto, ma la ricerca di collaborazione e di dialogo, anche se da prospettive diverse.

Proprio nel senso di una Chiesa profetica che non si cela dietro il paravento della neutralità, un esempio importante da Bologna, nel 1968, fu l’intervento del vescovo Giacomo Lercaro di condanna dei bombardamenti Usa in Vietnam. Un testo ripubblicato da poco con una sua prefazione. Come leggere ora quel segno dei tempi?
La cura della casa comune ci impone un impegno per contrastare la logica dell’autodistruzione. Bologna ha sempre espresso un grande patrimonio di intelligenze e di esperienze evangeliche, con una grande attenzione alla Parola di Dio e alla sua esigenza di misurarsi con la storia. Questa è una grande sfida, che oggi, al tempo di Francesco, ci ricorda che non si può costruire la pace sulla paura, per esempio, dell’incubo delle armi atomiche. Il papa ci invita a recuperare la lucidità del dopoguerra, a ricordare l’orrore di quel massacro, che condusse, tra l’altro, alla novità sempre attuale del Concilio.

Nel 1917 Benedetto XV denunciò l’inutile strage rivolgendosi ai capi delle nazioni, ma i credenti erano tenuti ad obbedire all’autorità. Il passaggio decisivo del Concilio è la centralità della coscienza personale?
La Chiesa è una delle poche autorità mondiali che può rivolgersi a tutti: è radicata nei territori ed è universale. Si appella sia alle autorità sia alla consapevolezza personale, per opporsi alla logica della divisione. Il male, infatti, ha la sua gestazione nell’indifferenza e nella chiusura verso l’altro. Pensiamo ai tanti  interventi del papa, che ci ha scosso sulla questione dell’accoglienza ai migranti. Eppure, quanto è forte la tendenza all’indifferenza e a chiudere gli occhi: pensiamo per esempio allo scandalo dei campi di detenzione in Libia, dove si consumano violazioni sistematiche dei diritti umani.

Eppure, sempre Biffi non indicava, nel 2000, la necessità di selezionare i migranti in base alla possibilità di integrazione, privilegiando i cristiani? Come si può rispondere oggi, senza buonismi, al timore, alimentato da certi media, del pericolo di invasione islamica?
Non dobbiamo etichettare con “buonismo” l’esigenza di carità e giustizia. È un ragionamento pericoloso. L’esigenza sollevata dal cardinal Biffi vale ancora oggi, ma soprattutto per chiederci se, oggi, esistono davvero i cristiani. La presenza dei musulmani è un dato di fatto, perché non si potevano porre filtri in base al credo religioso. E questa è una sfida alla nostra credibilità, che si gioca con la capacità di dialogo. Dobbiamo evitare di creare isole che si ignorano a vicenda, creando terreno fertile per lo scontro. Con realismo, si tratta di un invito alla nostra conversione.

Che definizione si può dare di Bologna?
Bologna è una città di forti identità, capaci di dialogare, di contrapporsi in maniera aperta e non caricaturale e di affrontare le contraddizioni della propria storia, dalla violenza ideologica del dopoguerra agli eccidi e alle stragi che l’hanno segnata, come quella del 1980. Una città laboratorio, con al centro la prima università del mondo occidentale. Il dialogo non è compromesso, ma occasione di arricchimento reciproco. In tal modo i tre pezzi della città (Chiesa, Comune e Università) possono dare assieme una risposta di alto umanesimo, come quello che abbiamo ereditato e che dobbiamo lasciare dopo di noi.

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