Con Marcello Prayer sulle tracce di Gesualdo da Venosa

Nato come spettacolo teatrale, “In flagrante delicto” è ora anche un libro con il testo integrale e interventi degli autori. Una riproposizione poetica che ricostruisce la storia, il mito e la leggenda del compositore madrigalista, personaggio pieno di contraddizioni e turbamenti, passioni e rimorsi. Intervista all’attore Marcello Prayer

Quello a cavallo tra fine ‘500 e inizio ‘600 è il secolo in cui è vissuto. Un contesto storico oscuro e violento, eppure ricco di scoperte rivoluzionarie. Storia turbolenta quella di Carlo Gesualdo, nobiluomo di antichissima stirpe e principe di Venosa, sposato con Maria d’Avalos dalla quale nascerà Emanuele, il primo dei suoi eredi. Dopo la scoperta del tradimento della moglie sorpresa “in flagrante delicto” di flagrante peccato con l’amante Fabrizio Carafa, duca d’Andria, Gesualdo uccide entrambi trucemente. Sebbene all’epoca il fatto non fosse contro la legge, per proteggersi dalle possibili vendette delle famiglie degli assassinati, si mise in salvo ritirandosi nel proprio feudo di Gesualdo, e allontanato dal figlio. Dopo aver sposato Eleonora d’Este da cui avrà un altro figlio, vivrà a Ferrara solo per un breve periodo durante il quale il suo principale interesse si riverserà nella composizione di madrigali, e nella crescente produzione e sperimentazione musicale. Tornato a Gesualdo, in perenne tormento, afflitto da un senso quasi d’inadattabilità alla vita, si chiude in un mondo fatto di isolamento, melodia, religiosità sofferente e riscatto dell’animo. Altre sventure in seguito si abbatteranno su di lui, tra malattie, rimorsi e riconciliazioni, fino alla morte. Questa in estrema sintesi la sua travagliata vicenda. Ne parliamo dal punto di vista artistico con l’attore Marcello Prayer, che è stato l’interprete di “In flagrante delicto”, spettacolo teatrale del 2014, rinato nel 2019 al Napoli Teatro Festival Italia, ora diventato una pubblicazione per l’editrice Cue Press.

La tua conoscenza di Gesualdo da Venosa risale a molti anni fa, ancor prima di far parte del progetto teatrale insieme al regista Roberto Aldorasi e al drammaturgo Francesco Niccolini… Da sempre ho un debole per la composizione madrigalista. Una materia, infatti, di cui mi occupo da anni è il coro, e i madrigali sono la forma corale per eccellenza, soprattutto quelli a 5 voci. Mi sono addentrato nelle ombre di Gesualdo semplicemente ascoltando il silenzio del suo castello ricco di suono e di musica. Castello che non ho mai visitato ma soltanto immaginato. La mia guida è stata il riascolto del materiale musicale partendo dal silenzio e dall’elaborazione del suo dolore, che comportava – e non è stato semplice – prendere consapevolezza di una sua reazione e istigazione all’omicidio. Omicidio – da collocare in un secolo cruento, dove la mortalità era alta – che, forse, non avrebbe mai voluto fare. Lui ha avuto la forza catartica di tradurre il suo disagio nel suono, un movimento dell’anima senza appigli, che ti fa scivolare in un pozzo dove l’unico rifugio è quel tipo di canto in cui non c’è più spazio se non per una sorta di esplosione di voci contrastanti che generano una polifonia di lotta. Farsi tramite di un tale personaggio, la cui vita privata è stata coronata di morti, vuol dire azzerarsi completamente per cercare la partitura di suoni che, pur avvertendoli, ti sfuggono. Lui è stato un po’ un anticipatore dell’arte della fuga di Bach, fuga per non saper reggere la vita.

Gesualdo

Come ti sei preparato, che tipo di lavoro hai fatto con la materia che offre questo personaggio dalle mille sfaccettature, e come hai cercato di restituirlo? Sono partito dal liuto, strumento del quale lui era esperto per essersi formato musicalmente entrando poi nell’arte della composizione. La purezza del suono era il suo rifugio. È paradossale come dal suo lato oscuro, da una condizione di violenza omicida – oggi parliamo di femminicidio – cui, purtroppo, lui appartiene, abbia scavato tanta luce. Sappiamo che l’omicidio per gelosia, per disonore, all’epoca non era punibile a livello legislativo, però era sufficientemente punibile dal lato personale, privato, perché Gesualdo, nell’intimo, si sentiva martoriato. Quel sangue di cui si era macchiato uccidendo Maria con l’aiuto di due sicari, è anche il sangue della sua musica, che nasce dall’essersi isolato dal mondo.

Anche il tumulto del sangue che scorreva nelle strade di Napoli durante la rivolta per la peste, è quello che lui interiorizza nella musica. Dopo aver commesso l’omicidio, si ritira nel suo castello e da lì partecipa, ma non attivamente, alla sommossa del popolo. Nella solitudine e nel silenzio delle mura del suo castello traduce quel sangue della violenza sublimandolo in suono puro. Ho cercato di restituire i suoi cedimenti più intimi e le sue lacerazioni  – che sono strazianti come lo è la sua musica –, immaginando quel battimento fisico e psicologico che lui ha vissuto come una sorta di purgatorio. Gesualdo non si nasconde. Il suo rifugiarsi, incurvarsi dentro il suono è animato da un’autodenuncia di se stesso, da una confessione totale. Ecco perché è così spietato. Perché viene dalle stanze della solitudine. Le sue stanze erano ricche di voci e di volti. Lui componeva ad ogni accadimento. Traduceva in suono quello che gli arrivava dall’esterno, pur essendo lui la causa di una situazione. È chiaro che non c’è giustificazione nei riguardi del delitto che ha compiuto e dal quale è uscito impunito, ma lui si è punito tutta la vita per quell’omicidio. Non se l’è mai perdonato. Per cui ci sono delle linee di suono dentro le sue composizioni che esprimono proprio la sua incapacità di accettare la violenza commessa. È un personaggio imprendibile, come la sua materia. Io l’ho solo sfiorato.

In quanto attore, cassa di risonanza come corpo e voce, lavorare con un personaggio simile, fisicamente e artisticamente che tipo di lavoro ha comportato? È un lavoro articolato sul silenzio, sullo spazio, sulla nudità dello spazio. Non posso basarmi sulla cronistoria della sua vita. La musica è stata il mio unico riferimento. Riascoltandola ho cercato di articolarmi nel tradurre il disagio e il dolore di un’anima, senza giudicare. Noi attori siamo dei tramiti. E nel farti tramite devi essere terso. Significa rendere disponibile il proprio corpo a farsi strumento per tentare di restituire il “in flagrante delicto”, ovvero un movimento interiore non traducibile nel volto. Dal punto di vista espressivo, di attore, non devi pensare al volto che fai. Devi dimenticartelo. Rigorosamente. Per ritrovarlo. E non sei tu che lo ritrovi, ma ti è restituito dall’altro. In questo caso dal regista, come primo avamposto del pubblico.

“In flagrante delicto. Gesualdo da Venosa, Principe dei Musici”. Editore Cue Press, collana Il Contemporaneo. 19,99 €

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