Mao all’indiana

Il movimento naxalita uccide ancora. E ricorda il bisogno di giustizia.
India

Bimal Kissan, un nome di chiara origine tribale della zona del Bengala occidentale. Probabilmente nessuno lo ricorda. Eppure, questo ragazzo, nel 1967, fu protagonista di un atto coraggioso capace di conseguenze inaspettate non solo per la sua gente, ma per tutto l’immenso Paese asiatico.

Nel cuore del latifondismo secolare che aveva privato la gente della terra, costringendola alla miseria e alla fame, il giovane bengalese con il permesso dell’autorità giuridica locale, cominciò ad arare un campo, reclamandone con un tale atto la proprietà. Furono gli zamindar (latifondisti senza scrupoli) del posto a reagire brutalmente per riprendersi la terra. Ne nacque una vera e propria ribellione di popolo: ci furono morti e feriti. Il villaggio, Naxalbari, sarebbe diventato famoso, dando il nome al Naxal Movement, un movimento di ispirazione maoista, che negli ultimi tempi ha acquistato una certa notorietà anche in Europa, a causa dei ripetuti attacchi contro le forze dell’ordine e l’esercito indiano.

Il movimento naxalita ha oggi una presenza in 161 provincie – il 30 per cento circa delle 600 dell’intero Paese – in Stati che vanno dal Bengala, nel Nordest del Paese, alla parte settentrionale del Tamil Nadu, nell’estremo Sud. La striscia, lunga circa due mila chilometri, è nota come corridoio rosso, dove la presenza dell’amministrazione maoista, parallela a quella del governo, è diffusa a intere zone di Bihar, Orissa, Andra Pradesh, Chattisgarh, Maharashtra e Uttar Pradesh.

 

Il fenomeno naxalita ha origini complesse. La causa fondamentale sta, come accennato, nel latifondismo (detto dei zamindar), nato in epoca moghul ma sopravvissuto nei secoli e mantenuto anche durante il periodo coloniale con grossi interessi sia per gli inglesi che per coloro che raccoglievano le tasse a loro nome. Il sistema, oggi, resta parte integrante dell’India rurale, causando il permanere di un feudalesimo medievale in gran parte del sub-continente. Altrettanto determinante è stato lo sfruttamento che gli adivasi, abitanti originari di vaste regioni, hanno dovuto e continuano a sopportare da millenni. Il tutto è aggravato dalla corruzione del sistema amministrativo, vero ostacolo alla messa in atto delle riforme agrarie, pur approvate dal governo di Delhi, che avrebbero assicurato terre a tutti. 

Queste problematiche profonde, negli anni successivi all’indipendenza, hanno favorito l’affermarsi di una guerriglia comunista in vaste zone dell’India rurale. A fronte di un emergente centrismo pragmatico che ha spinto il partito comunista sulla strada della democrazia parlamentare, si sono infatti sviluppati due correnti rivoluzionarie, una di chiara ispirazione stalinista e una seconda maoista. Fu proprio l’ispirazione del Grande timoniere a determinare la prima vasta rivolta agraria dell’India indipendente: il movimento del Telangana – zona particolarmente ricca dello stato dell’Andra Pradesh – che ancora alla fine degli anni Cinquanta fu teatro di una vera e propria rivoluzione agraria, che costituisce la radice profonda del movimento dei naxaliti.

 

Da parte sua il Naxal Movement, a partire dagli anni Settanta, ha avuto una storia caratterizzata da una diffusione fulminate e da battute d’arresto improvvise, determinate sia da operazioni militari che ne hanno distrutto i quadri, che da lotte interne, ideologiche e di potere, che ne hanno minato l’efficacia. A più di quarant’anni dalla nascita, il movimento è, tuttavia, vivissimo, nonostante la sua multiforme composizione, non solo ideologica, ma anche linguistica ed etnico-sociale. La fazione oggi alla guida della guerriglia è il People’s War Group (Pwg), che continua a rifiutare qualsiasi compromesso con il sistema democratico in nome di una guerra del popolo, come soluzione unica e definitiva ai problemi della gente delle campagne. È una guerra violenta, che mira al cuore dell’amministrazione, soprattutto locale, dei vari Stati. Le vittime degli attentati sono poliziotti, militari e burocrati o politici. Chandra Baba Naidu, ex-primo ministro dell’Andra Pradesh, qualche anno fa uscì miracolosamente illeso da un attentato motivato dal fatto che la politica del suo governo mirava allo sviluppo di Hyderabad, la capitale, trasformata in pochi anni in una Silycon Valley, a scapito delle zone rurali, lasciate in balia della loro miseria aberrante.

 

Il maoismo e la guerriglia marxista, in quasi tutto il mondo, sembrano ormai materia per i libri di storia. In India si combatte ancora in nome di questa ideologia per arrivare all’uguaglianza e a quella giustizia sociale da sempre negata a milioni di esseri umani. È vero, come conclude uno degli studi più autorevoli sul fenomeno naxalita, che «il mondo sta andando avanti e con esso anche l’India. I naxaliti farebbero bene a riconosce che i tempi stanno cambiando e che è necessario adattarsi ad un ambiente dove il marxismo-leninismo-maoismo ha cessato di avere una rilevanza significativa» (Prakash Singh). Ma è altrettanto innegabile, che in questo mondo, villaggio globale, non è più possibile avere milioni di persone che vivono con pochi centesimi al giorno, che permettono niente di più che un piatto di riso e qualche lenticchia.

Lo sa bene l’anziano Atul Behari Vajpayee, già primo ministro dell’India. Nel 2002 un suo assistente economico dichiarò che l’escalation della violenza di impronta maoista era causa di lunghe notti in bianco per lo statista indiano. L’attuale primo ministro Manmohan Singh non ha trovato soluzioni al problema, che resta un spina nel fianco della più grande democrazia del mondo e una delle grandi economie che guidano la storia attuale dell’umanità.

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