Ma le cose si sono create ?

Nel pensare, nella cultura, ma anche nel costume quotidiano, che ne porta le tracce, niente è peggio dell’ideologia. L’ideologia è la pretesa di racchiudere il mondo e sé stessi nella bollicina del proprio cervello. Ma come si può uscirne?, viene subito la domanda. Con la coscienza umile del proprio individuale e universale limite umano. La mancanza del limite è il segno più chiaro dell’ideologizzazione della vita. Attraverso una breve serie di riflessioni vorrei mettere in chiaro, per quanto è possibile, i guasti che l’ideologia – di ogni colore e provenienza – ha prodotto e produce nelle nostre spiritualmente disastrate società. E perciò vorrei prendere in esame le distorsioni profonde e pericolosissime che essa induce: 1) nel pensare il mondo; 2) nel pensare l’io e il tu; 3) nel pensare (e vivere) l’amore; 4) nel rapportarsi alla morte. La Bibbia dice che i cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani, e che di questo linguaggio si odono bene il suono e le parole. Il grande Agostino interroga poi terra e mare, cielo e stelle, ed esse gli dicono: non siamo noi Dio, egli ci ha creato. Per Francesco queste creature, lui compreso, riconoscono e lodano Dio e sono suo segno (significa-tione). Ancora pochi anni dopo il suo seguace Bonaventura ribadisce, già in chiave difensiva, che davanti al creato chi non vede è cieco, chi non ode è sordo, chi non loda è muto. (E tutti non fanno che riprendere le grandi parole di Paolo nel primo capitolo della Lettera ai romani, sulla creazione e il suo autore). Pochi anni dopo, Dante illumina di poesia il mondo creato e redento da Dio, lo fa parlare con eloquenza assoluta. Ma tre secoli dopo, nella parte del Seicento che sta tra la fine del Rinascimento e le tremende guerre di religione, non un ateo o un libertino, ma il cristianissimo Blaise Pascal scrive nei suoi Pensieri, e lo fa in uno stile nervoso e quasi disperato, che cielo e uccelli non dimostrano l’esistenza di Dio. Cosa è successo in quel periodo, quale filo si è spezzato? Di che cosa dispera Pascal, fino a involontariamente rimangiarsi Bibbia, padri, santi? Dispera della ragione: Dio sensibile al cuore e non alla ragione. Pascal fa un salto pericolosissimo (fede senza ragione) disperando di ciò che invece non solo è dono di Dio ma trampolino che si supera, certo, ma senza il quale si rischia, invece che di tuffarsi, di fracassarsi. Evidentemente, in quei secoli cristiani, cristiani anche se sempre più problematicamente, la ragione ha fatto, come il vino mal conservato, la muffa; ma è vero anche il contrario, e cioè che il cristianesimo mal pensato e mal vissuto ha fatto la sua muffa, la sua ideologia. Non generalizziamo: ci sono anche allora grandi santi e grandi pensatori, grandi uomini e grandi opere; ma è chiaramente comparsa, e sempre più, nella crescente divaricazione tra fede e ragione, teologia e filosofia, spiritualità e cultura, l’ideologia; che riduce la filosofia a un io penso che e la fede a un io credo che, nel senso della iper-soggettività, con l’accento sull’io che fa diventare il penso e il credo opinioni separate, solitudini. Ecco il mondo cosiddetto moderno, la libertà tutta negativa di pensare e fare come mi pare, cioè di recidermi, isolarmi, usare gli altri e me stesso come cose usa-e-getta; mentre per chi davvero pensa e crede, che si chiami Kant o Gaber, la libertà non è uno spazio libero e vuoto, ma partecipazione; realtà condivisa. A Roma quando si vuole distinguere tra le colpe degli uomini e quelle mal attribuite a Dio, si dice; Nun è er monno che non va, so’ i monnaroli. E questo è un umile ma deciso e innegabile ritorno alla Bibbia, a Paolo, Agostino, eccetera. Si ritorna cioè a una fondamentale riconoscenza e gratitudine, che sembrano essersi smarrite. Se non si riconosce l’autore del mondo come esistente e datore di doni (la ragione retta lo riconosce), come si fa ad impiantare sul nulla ogni altra affermazione e negazione? So bene che ci sono atei onesti e buoni, credenti disonesti e cattivi. Ma la verità è verità per gli uni e per gli altri, va cercata fino in fondo. L’ideologia, di destra o sinistra o comunque la si voglia etichettare, inaridisce la mente e il cuore (la ragione e la fede) perché è, alla propria origine, materialismo, relativismo, soggettivismo. Sembra di guadagnare chissà che dicendo: io penso, voglio, faccio quello che mi pare, invece ci si sta spogliando di tutto. Nel grande romanzo I demòni di Fëdor Dostoevskij il culmine del materialismo-relativismo- soggettivismo è il suicidio, perché il genio del grandissimo scrittore intuisce che chi riferisce tutto al suo amor proprio scopre che l’amor proprio è una voragine insaziabile fino a comprendere la morte stessa. Nel 1224 Francesco pronuncia il Cantico delle creature: Altissimu, onnipotente, bon Signore. Nel 1938 Jean-Paul Sartre scrive La nausea che è l’anti-cantico delle creature: ogni cosa, pietre, erbe, animali, il protagonista umano, lo scrittore stesso, dà la nausea metafisica perché tutte sono in più, superflue, eccedenti come la vita stessa, vista come una macchia nella presunta purezza del non-essere. Quando ne lessi una pagina all’Università gregoriana un sacerdote africano ci rimase molto male e io interpretai – credo correttamente (accennava di sì) – il suo pensiero: Certo che noi europei dobbiamo sembrarvi proprio matti…. Ma non è solo questione di follia culturale. È che quando manca la fondamentale gratitudine si arriva al paradosso poco divertente del poeta Paul Valéry il quale, pur essendo molto intelligente, cadeva, sia pure consapevolmente-ironicamente, nella stupidità di lamentarsi con Dio, in cui non credeva, perché non lo aveva consultato prima di crearlo. E chi mai Dio poteva consultare? Direi che è più divertente il paradosso di Luís Buñuel, grande regista spagnolo, il quale dichiarò: Grazie a Dio sono ateo; infatti l’ateo dovrebbe essergli grato almeno di poterlo essere. Ma diciamo una cosa più seria. Perché l’uomo moderno teme che tra lui e il mondo ci sia il nulla, ovvero la semplice identificazione senza differenze, e che lui sia una cosa destinata a consumarsi con tutte le altre in un infinito rimescolamento atomico? Perché l’evidenza materiale del viveremorire supera e anzi sostituisce l’evidenza della mente, che nessuna cosa può essere prodotta da sé stessa o da nulla, e che forse (un forse da approfondire per tutta la vita) l’autore del mondo si è anche rivelato, e perfino incarnato per amore eternizzante della sua creazione? Perché si preferisce un’amara negazione a un presentimento di gioia (a cui l’intero spirito tende)? Proviamo a rispondere con una scomoda verità psicologica: perché c’è un illusorio possesso di sé che sembra surrogare la non sperata felicità, ideologicamente creduta irraggiungibile. Perché l’ebbrezza della creduta libertà si maschera da amore, falso perché distrugge, consuma. Ma se si fa un passo anche infinitesimale nell’amore vero, che è pensiero e azione riconciliati, se si esce anche di un millimetro da sé stessi per amore non possessivo di un altro essere, si scopre l’infinita convergenza, in quel vuoto di sé, della mente e del cuore, e il nome stesso di tale convergenza; e in quel nome, il proprio nome fino allora sconosciuto. Il mondo riprende a parlare, a trasmettere il proprio messaggio il giorno al giorno, la notte alla notte. Lo sconosciutissimo autore del mondo si presenta al suo orizzonte come la luce che lo illumina ben più del sole, perché illumina da dentro anche chi guarda il sole. Allora i viventi pilastri (Charles Baudelaire) della natura non ci mandano più confuse parole ma nitide voci, intimi richiami. Allora le ragioni solo soggettive e le solitudini incolmabili possono, e bisogna ripetere possono senza trionfalismi e senza barriere, incominciare a sciogliersi; non nel nulla, ma in una non mai prima sperata persuasione, capace di scacciare le grottesche parole che ho ascoltato pochi mesi fa in un documentario super-ideologico: Quando tutte le cose si sono create… . Si sono create? Ma va’?!.

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