L’Islam che non fa paura

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Nel nord ovest di Londra, in una palazzina uguale a mille altre, dignitosa ma con quella negligenza corretta che è così tipica dell’architettura urbana londinese, incontro una delle personalità più in vista dell’Islam in terra britannica, il dott. Zaki Badawi, di origine egiziana. Consulente assai ascoltato di Tony Blair, Badawi non nasconde le sue ambizioni, a cominciare dalla volontà di dare una immagine tollerante dell’Islam. Fornito di una notevole capacità di accoglienza e di una indiscutibile dialettica oratoria, Badawi è sostenitore del dialogo a oltranza tra i fedeli di diverse religioni, in particolare tra le tre fedi di Abramo. Un uomo a suo agio nei media. Insegna diritto islamico al Muslim College, di cui è fondatore e ora rettore, un istituto superiore con l’obiettivo di preparare i responsabili della comunità musulmana: si ritiene infatti importante formare nel Regno Unito le guide spirituali, piuttosto che importarle già formattate dai loro paesi d’origine. Viene quindi offerto agli studenti un corso di studi islamici che copre argomenti quali la conoscenza del Corano e degli hadith, la giurisprudenza, la teologia e la storia islamica, accanto a corsi di filosofia occidentale e sulle altre religioni (in cui si dà la parola ad alcuni rappresentanti delle altre fedi). Da dove viene il terrorismo? Secondo me si tratta del sintomo di una malattia provocata dalla ingiustizia e dalla reazione alla pressione subita dalla comunità musulmana nel mondo. La situazione del vicino oriente infiamma gli animi dei giovani nelle nostre comunità, ed è la prima causa dell’odio di tanti nei confronti degli Stati Uniti, o piuttosto della politica di Washington, non certo nei confronti degli statunitensi. Se gli Usa e altri alleati vengono attaccati, la ragione va secondo me cercata nel fatto che l’amministrazione Bush sta evitando di affrontare i veri temi relativi all’Islam. Anche in Europa gli statunitensi sono spesso odiati a causa della loro politica, non è vero? Negli stessi Usa, la metà della popolazione non si sente rappresentata dai loro leader. Penso che tale situazione sia all’origine del terrorismo. Ma nel merito? Non c’è che una condanna totale di ogni atto di violenza, soprattutto di quello che colpisce gente innocente, in paesi di accoglienza . Dalla libertà politica a quella di opinione. Dott. Zaki Badawi, lei è stato coinvolto nel caso Salman Rushdie… Quando sono usciti I versetti satanici, il mio consiglio alla comunità è stato quello di non fare chiasso, di ignorare il libro e il suo autore. Quando la stampa mi chiese se avrei accolto a casa mia Rushdie perseguitato da una folla di musulmani inferociti, risposi che sì, l’avrei fatto, perché è questo che l’Islam mi insegna. Se non sono d’accordo con il suo libro, non è questa una ragione sufficiente per perseguitarne l’autore: dovrei piuttosto scrivere un altro volume per confutarne le tesi. La comunità musulmana ci mise assai a capire la mia posizione, ma alla fine mi diede ragione. Ci incontrammo ad esempio in quattrocento nella moschea centrale, e si aprì un aspro dibattito; ma quando esposi la mia tesi in base alla shari’a, si fece un gran silenzio. Solo due persone si opposero: un nuovo convertito che mi accusava di presentare l’Islam troppo positivamente e un uomo che mi accusava di essere al soldo dal governo. Io sono egiziano, non sono pagato dai britannici e lavoro per la mia comunità; ma ritengo che, quando si vive in un paese diverso dal proprio, si abbiano dei doveri nei confronti di esso. Quali le radici dell’attuale malessere, che in Gran Bretagna è esploso con gli avvenimenti del 7/7? esploso con gli avvenimenti del 7/7? Ciò che differenzia l’attuale presenza musulmana rispetto a quelle del passato sta nel fatto che l’Islam questa volta non è arrivato né come invasore né come forza ostile, ma piuttosto per la richiesta proveniente da paesi quali Germania, Francia e Gran Bretagna che hanno avuto la necessità di utilizzare mano d’opera proveniente da paesi stranieri,musulmani in particolare, per risollevare le sorti delle loro economie. Questi lavoratori sono venuti in Europa con l’intenzione di mettere da parte un po’ di soldi per poi tornare nei loro paesi di origine, comprarsi una casa e un terreno e infine sposarsi. Spesso, però, ciò non è stato possibile. E così per la prima volta l’Europa si è trovata ad avere a che fare con gruppi di persone molto diverse da quelle tradizionali, con le quali spesso entra in conflitto, anche se il Vecchio continente non è sempre stato un’entità omogenea: l’elemento musulmano è stato assai secondario nella sua costituzione, benché esso sia in effetti molto vicino alle due grandi religioni presenti in Europa da più lungo tempo, e cioè cristianesimo ed ebraismo. In realtà noi musulmani siamo più vicini agli ebrei di quanto non lo siano i cristiani, e siamo più vicini ai cristiani di quanto non lo siano gli ebrei. È per questo che non ci sentiamo affatto degli estranei: anzi, noi avvertiamo che, una volta installati pacificamente in Europa, riporteremo quel senso del divino che qui sta scomparendo. Ogni emigrante porta però con sé non solo la religione dei suoi avi, ma anche la propria cultura… La religione – in cui si combinano non solo la fede, ma anche quel sistema di regole di comportamento che chiamiamo shari’a – non deve necessariamente essere in conflitto con i valori europei. Tuttavia, se analizziamo il bagaglio culturale che ognuno si porta dal Pakistan o dall’Egitto, dall’Iran o dall’Arabia Saudita, ci rendiamo conto che sono proprio questi elementi – che non appartengono ai nostri libri sacri né sono regolati dalla shari’a -, che creano conflittualità: chi emigra vorrebbe infatti poter continuare a vivere come faceva a casa sua. Io invece consiglio ai membri delle nostre comunità di prendere una decisione radicale: adattarsi all’arte di vivere europea. Questo non vuole dire abbandonare la propria religione o il proprio codice morale, tutt’altro; ma sapersi guardare attorno, osservare le differenze e adattarsi a esse, così come possibile. Fin qui tutto bene… I veri problemi sorgono allorché il sistema di vita europeo entra in contrasto col sistema sociale dei nostri paesi di origine, che solo raramente sono basati sulla shari’a, anche se troppi pensano invece che sia così. Prendiamo la questione della donna: da un punto di vista strettamente legale, le nostre donne vengono trattate assai meglio di quanto si possa immaginare. Esse hanno da sempre diritto di ereditare, di scegliersi un marito e di mettere fine al matrimonio quando non ne siano più soddisfatte: diritti che le donne europee solo da poco hanno acqui- sito. Ciò nonostante, nel mondo islamico non sempre ci si comporta secondo questa legge. Avviene così, ad esempio, nel caso dei matrimoni organizzati dai genitori o dai parenti, come è tradizione in Yemen e anche in alcune regioni d’Egitto. Ma che il matrimonio sia forzato o organizzato dalla famiglia non ha nulla a che vedere con la legge islamica, la quale è invece molto chiara: esso non è un sacramento, ma un contratto basato su una scelta libera. Questo è un chiaro caso nel quale gli elementi culturali e tradizionali hanno più peso di quelli religiosi. Secondo lei, dott. Badawi, che cosa bisogna sottolineare nelle relazioni tra religioni? Invece di farci la guerra, dovremmo ricordarci che l’obiettivo di tutte le fedi è quello di salvare le anime, non di distruggere i corpi. A ciò dovrebbero riportarci ai due linguaggi che ci accomunano, quelli dello spirito e della bellezza. Quando i cristiani, i musulmani, gli ebrei o gli indù parlano dello spirito, si riferiscono a qualcosa che appartiene a tutta l’umanità, non solo a una specifica fede. Sulle questioni dello spirito ci possiamo capire e comunicare: nel Medioevo, ad esempio, i mistici sufi si recavano nei conventi cristiani per discutere coi monaci e meditare insieme. Anche la bellezza è un patrimonio comune: penso alla musica, all’architettura, a tutte le opere d’arte che le religioni hanno prodotto. Recentemente si è svolta una mostra di calligrafia coranica alla Gregoriana: tutti ne hanno goduto perché si trattava di opere magnifiche . IL LIBRO L’Islam che non fa paura (edizioni San Paolo) è un viaggio nell’Islam più tollerante, con interviste a leader religiosi, opinion maker e accademici musulmani. In uno spirito di ascolto, l’autore ha voluto dar loro voce, per presentare il volto dell’Islam seguito dalla maggioranza dei suoi fedeli, un Islam che non vuole lo scontro di civiltà. La logica che sta alla base del libro è quella della regola d’oro (Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te): Zanzucchi ha scelto questa prospettiva come sua regola professionale. Una scelta che appare valida per le inchieste svolte nel mondo islamico, trovando negli interlocutori una sensibilità confacente a questo stile di lavoro. Lo spirito di accoglienza, uno dei capisaldi etici dell’Islam, in questo libro viene perciò continuamente in evidenza, nonostante la franchezza dei dialoghi. Il viaggio ha portato l’autore a intervistare una sessantina tra i leader musulmani tolleranti e concilianti più conosciuti, tra cui lo sceicco Tantawi, di Al-Azhar (Egitto), l’ex presidente Wahid (Indonesia), l’imam W.D. Mohammed (Usa), il gran muftì Ceric (Bosnia), il leader sufi Fetullah Gülen (Turchia), il ministro al-Abadi (Giordania), il dott. Zaki Badawi (Gran Bretagna), il rettore Dalil Boubakeur (Francia), lo sceicco Pashazade (Caucaso), Edhi Abdul Sattar (Pakistan), l’ayatollah Muhammad Khamenei, fratello della guida suprema Ali (Iran), il prof. Abu Zayd (Egitto-Olanda), il prof. Maalmi (Marocco), il muftì Trnava (Kosovo), l’ex presidente del Senato Boumaza (Algeria), l’imam sciita Jamal al-Din (Iraq)…

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