L’Irlanda e l’azzardo etico

Il crack della tigre celtica ha incrinato l’unità dell’Europa? Intervista all'economista Vittorio Pelligra.
Bank of Ireland

La crisi finanziaria dell’Irlanda e le misure che l’Unione europea sta adottando per impedire il crack aprono interrogativi sull’unità dell’Europa, minata dalla recessione. Intanto si resta in allerta per Portogallo e Spagna ed è inevitabile chiedersi se e quando toccherà all’Italia. Questa bufera riguarda l’economia o c’è di mezzo una questione etica di banche e imprese? Ne abbiamo parlato con Vittorio Pelligra, docente di economia all’Università di Cagliari e all’Istituto universitario Sophia, di Loppiano.

 

Professor Pelligra, dopo la Grecia e l’Irlanda si teme per Spagna e Portogallo. La crisi non risparmierà nessuno?

«Partirei dal distinguere la Grecia dall’Irlanda. In Grecia c’era una fragilità del sistema finanziario legata anzitutto alla gestione, se possiamo dire “allegra”, dei conti pubblici, cosa non riscontrabile in Irlanda, dove il governo è stato più rigoroso».

 

Perché il rischio di un crack?

«Il governo si è impegnato a ripagare interamente i depositi in caso di fallimento: ha assicurato al cento per cento sia i risparmi depositati nelle banche, sia le obbligazioni emesse dalle imprese e dai privati. Questo, che sembrava un punto di forza del sistema, si è rivelato un boomerang, che ha generato opportunismo, quello che gli economisti chiamano “azzardo morale”. Gli investitori fanno un ragionamento semplice: se mi dai la possibilità di assicurarmi dal rischio di fallimento per il cento per cento, abbassi il mio incentivo a essere cauto, a valutare le scelte e mettere in atto i comportamenti virtuosi che evitino l’azzardo. Questo meccanismo ha fatto saltare la corresponsabilità e quindi, nonostante la crisi, la rischiosità degli investimenti non si è ridotta, anzi è stata rafforzata dalla certezza del risarcimento totale».

 

Tasse, tagli al welfare e agli stipendi hanno portato la gente in piazza, mentre il governo adotta misure a favore delle aziende straniere. Mossa astuta in vista della ripresa?

«Mi riallaccio al concetto di azzardo morale. Se si dà il segnale che le banche cadono sempre in piedi perché pagheranno i cittadini il salvataggio, si innesca una spirale negativa, del tipo: “Fate quello che volete, tanto nessuno di voi fallirà”. Se la ricetta per uscire dalla crisi è stimolare la crescita attirando imprese, e l’Irlanda è la nazione che più lo ha fatto, come mai il crack? Questa non è la ricetta. Scaricare una crisi finanziaria sui cittadini crea una percezione d’ingiustizia forte, di sfiducia. Se licenzi dipendenti statali, aumenti l’iva e tassi i consumi, riduci investimenti, la crisi diventa sociale».

 

Cosa suggerisce, allora?

«Gli Stati vogliono attrarre più investimenti esteri ed essere liberisti, ma rischiano movimenti speculativi molto forti. La tassazione sulle rendite finanziarie disincentiverebbe gli speculatori e sposterebbe la massa di investimenti dalla finanza alle attività produttive. Questa scelta sarebbe un segnale di giustizia sociale e penalizzerebbe i comportamenti opportunistici, per arrivare alla condivisione dei costi della crisi tra cittadini e detentori dei grandi capitali».

 

L’intervento dell’Ue è contrastato. Gli Stati non accettano riduzioni di sovranità. L’Europa unita è fallita?

«La tentazione è forte ed è legata agli egoismi nazionali e alla possibilità per i governi di essere rieletti, poiché il loro operato è giudicato dai cittadini di ogni Stato e non di tutta l’Europa. Fuori dal consenso elettorale, l’idea di Europa non è in crisi, anzi ci siamo resi conto di quanto sia necessaria, perché gli Stati da soli non ce l’avrebbero fatta senza istituzioni economiche forti, integrate con un’immagine unitaria sui mercati internazionali. La sovranità, gli Stati l’hanno persa da tempo: la politica monetaria, ad esempio, è fatta dalla Banca centrale. Gestiamo una crisi comune, con fondi comuni e non si torna a Stati nazionali quando l’interdipendenza è così forte».

 

E allora perché tante resistenze al piano di salvataggio?

«Paul Krugman, Nobel per l’economia, sostiene che la concessione di nuovi prestiti potrebbe aggravare la situazione, poiché, per quanto i finanziamenti europei siano concessi ad un tasso basso, l’Irlanda non sarà in grado di ripagarli senza una ristrutturazione del debito e una riduzione di quello pubblico».  

 

Che sorte toccherà all’Italia?

«Per l’Italia le riforme strutturali e i tagli, che l’Irlanda sta facendo in modo repentino, sono iniziati da tempo e poi il nostro sistema bancario è chiuso, meno esposto, ma bisogna dire che gli speculatori sono imprevedibili: non attaccano gli Stati insieme, ma ad ondate a partire dai più deboli».

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