L’inferno di Lars von Trier

La casa di Jack è un film del 2018 scritto e diretto da Lars von Trier con protagonista Matt Dillon. La pellicola segue le vicende di Jack, un serial killer con propensioni artistiche e filosofiche, il quale ha commesso omicidi nel corso di dodici anni nello stato di Washington.

La Casa di Jack, ultimo lavoro del regista, spia la vita di un uomo malvagio (uno stupefacente Matt Dillon). Volontariamente. Cioè presenta ed indaga il male, le sue radici perverse e le sue azioni attraverso la storia di Jack, artista fallito, psicopatico fin da bambino, condannato per libera scelta a compiere delitti efferati come opere d’arte sempre più perfette. Una follia distruttiva  in cui tra musiche di Bach suonate da Glenn Gould, tele di Blacke, Delacroix  e Géricault, spezzoni di filmati di eccidi, si snodano gli omicidi – di donne per lo più ma pure di bambini – di un uomo che obbedisce ad una sola legge: la perfezione dell’arte – dell’umanità – attraverso la crudeltà.  Una sorta di Virgilio – un perfetto Bruno Ganz,da poco scomparso – ne accompagna in un dialogo quasi ininterrotto le vicende, come un reflusso di coscienza che lascia Jack solo davanti alle sue scelte. Egli è libero di continuare a uccidere, di nutrirsi di sangue e di morte. Tra la prima parte del lungo film e l’ultima, c’è una forte cesura. Se dapprima von Trier racconta con dettagli raccapriccianti e compiaciuti le crudeltà di Jack, poi l’uomo, vestito di rosso come un novello Dante, scende con Virgilio all’inferno. Da cronaca di un trhiller sanguinoso – Jack è ricercato dalla polizia a cui spesso sfugge – il film si trasforma in metafora. Nell’inferno di lava e di fuoco, pare un fioco lume di  coscienza attraversi Jack  quando vuole scalare  la montagna infernale: verso la luce, la libertà o per esplorare altre forme del male? L’esito dipende dal rischio a cui accetta di sottoporsi o meno.

Nel complesso racconto-metafora, von Trier include ogni follia umana del passato e del presente, perché Jack è figura – forse – dell’uomo contemporaneo che gode della morte e della crudeltà.  Senza freni morali, tutto – per l’arte (!) è accettabile, possibile. L’arte è potere, il potere è arte, la morte è la più sublime forma d’arte. È la società attuale o di sempre, ed è pure – a quanto pare – l’inferno dentro l’anima del regista stesso? Dio, quel Dio che in qualche misura misteriosamente appariva in Melancholia,qui tace, travolto dalla performance del male e dalla volontà di non evitarlo.  Un pessimismo crudele. È ciò che siamo o che saremo la domanda di questo film imperfetto, certo, eccessivo ed inquietante? A ciascuno dare la propria riposta.

 

Mario Dal Bello

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