L’incontro con il Piccolo Principe

In Giù le maschere Salvatore Striano racconta l’incontro con un gruppo di ragazzi ospiti di una casa famiglia. Tra questi, uno in particolare, che l’Autore chiama il “Piccolo Principe” colpisce la sua attenzione.

Chiedo all’educatrice se posso andare su da solo; muove la testa in segno di assenso ma avverto il suo sconforto, come a volermi dire che è tempo perso: lui non comunica, lui non vuole stare con noi, lui ha scelto la musica come compagna di questa triste vita. Salgo le scale e arrivo alla porta, che apro senza bussare. Lui manco mi vede; mi avvicino al letto, sta posizionato in un angolo, tutto rannicchiato. Quelle enormi cuffie gli coprono le orecchie e la faccia, ha una testolina così piccola che sembra dimostrare meno dei suoi quindici anni. Gli prendo le cuffie e le porto alle mie orecchie, lui mi lascia fare, anche se con gli occhi mi fulmina. Ascolto la sua musica per circa trenta secondi, poi gli ridò la cuffia dicendogli: «Ma che cavolo di musica ascolti?».

«Ma tu chi sei? Scendi dal mio letto!».

«Sì, scendo, ma solo dopo averti raccontato un po’ della mia vita».

«Chi se ne frega».

«Invece io penso che dovresti starmi a sentire; ti dico pure che sarò nudo e crudo, schietto, di-retto, senza usare mezze parole, perché in questo luogo orrendo dove stai tu ci sono stato anche io, anzi io sono stato in posti peggiori, in posti dove, se non apri gli occhi, ci vai a finire anche tu! Quindi ascoltami!», e inizio il mio racconto.

«Avevo 14 anni, ero più piccolo di te la prima volta che mi hanno arrestato. In verità non avevo fatto niente, ero solo con una cattiva compagnia. Eravamo in moto, siamo stati fermati dalla polizia per un controllo: e dire che io scherzavo e ridevo, mentre l’amico mio più grande – aveva vent’anni –, si mostrava teso e nervoso. Dopo un po’ vedo un poliziotto che raccoglie da terra una bustina con dentro della polvere. Senza chiedere niente, in mezzo alla strada affollata, ci ammanettano e ci spingono in un negozio di abbigliamento, in atte-sa che arrivi una volante della Polizia per portarci in questura. Io ero tranquillo ma volevo capire, solo che ogni volta che cercavo gli occhi del mio “amico”, lui mi faceva segno di stare zitto.

«Dopo circa cinque minuti arrivano queste maledette volanti, ci caricano dentro e a tutta velocità corrono verso la questura. Avevo più paura di come quel pazzo poliziotto correva con la macchina che della situazione stessa, perché io ero pulito, sicuro, non avevo fatto niente di male. Quando arriviamo in questura ci buttano giù alle camere di sicurezza, uno di fronte all’altro, non insieme perché io ero minorenne e lui no. Finalmente prendo coraggio e gli chiedo: Mi dici che sta succedendo? Perché stiamo qua? E lui mi risponde: Quella bustina l’hai vista?

«Sì, l’ho vista… ma che c’entra con noi? C’entra, c’entra, risponde lui. Erano 5 gr. di cocaina miei. Senti Sasà: tu sei piccolo, se dici che è la tua, stasera, massimo domani, sei a casa… se in-vece accusano me io uscirò dal carcere tra tre anni minimo! Lo guardo per un secondo e poi mi giro. Cammino da solo avanti e indietro in quella camera di sicurezza… devo dargli una risposta. Se dico di no, sembra che lo mando in galera io, diventando il vigliacco del quartiere a 14 anni; se dico sì mando lui a casa a dire a tutto il quartiere che io sono un uomo, un uomo di strada e un uomo di malavita… ma soprattutto un uomo d’onore, che si accolla i guai dei propri amici».

Intanto mi rendo conto che ho catturato l’attenzione del Piccolo Principe – ogni volta che lo guardo non posso fare altro che pensare al racconto del Piccolo Principe di Saint-Exupéry –, che mi guarda con un’ombra di interesse stupito sul viso; così proseguo il mio racconto: «Non ci sono rimasto un giorno, e nemmeno una settimana… ma ben sette lunghi mesi, tra carcere e comunità. Sono riuscito a uscire solo quando dal carcere mi affidarono a una parrocchia. Padre Giovanni, che era il mio tutore, al processo disse al giudice queste precise parole: Ci avete mandato il diavolo e l’acqua santa. Io lo guardai spaventato, perché ero sicuro che mi volesse bene e mi chiedevo perché mai avesse usato quella frase contro di me. Invece fu la frase vincente, perché il giudice quel gior-no disse: Beh, questo ragazzo ha già pagato troppo, mi sa che può tornare a casa e fare il bravo. Uscii dall’aula ma non ero felice, mi sentivo tradito da padre Giovanni. Quando sento da dietro la sua mano che mi afferra la spalla, mi gira e mi abbraccia forte forte… Aveva gli occhi pieni di lacrime, mi disse: ce l’abbiamo fatta, Sasà; e io gli risposi: Vattene, spingendolo via, hai detto che io sono il diavolo. Lui mi riprese, ridendo, e mi disse: Era l’unico modo… Vieni qua, tu nemmeno le corna hai del diavolo, e sentii il suo abbraccio sincero, quegli abbracci che solo la mia mamma sapeva darmi».

da “Giu’ le maschere” di Salvatore Striano (Città Nuova, 2017)

 

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