Libertà di espressione per la fraternità

Una settimana dopo gli attentati di Parigi, quello sventato in Belgio e le manifestazioni in Francia e nel mondo, in alcuni Paesi dell’Africa e dell’Asia e nel Medio Oriente divampano le proteste
Algeri

 

In Francia, dopo la mobilitazione di 4 milioni persone, i medici hanno constatato l’aumento del consumo di ansiolitici. Nelle periferie, alcuni studenti si sono rifiutati di osservare il minuto di silenzio per le vittime degli attentati, mentre nelle scuole si è rapidamente diffusa la voce, poi denominata “teoria del complotto”, per la quale l’attacco, in realtà, sarebbe stato il frutto di una cospirazione che avrebbe unito il presidente Hollande e i servizi segreti israeliani per distruggere l’Islam.

Come si sa, voci di questo tipo sono frequenti. Anche all’epoca dell’attentato alle Torri gemelle, a New York, alcuni avevano accusato l’Fbi di aver fomentato l’attacco. Alcune organizzazioni hanno anche creato dei siti per dimostrare l’esistenza di un complotto. Anche questo fa parte, che lo si voglia o no, della libertà di espressione.

In Francia gli insegnanti, in pochi giorni, hanno dovuto far fronte ad una sorta di inquietudine strisciante. Il bisogno degli adolescenti di avere una spiegazione sulle follie di un mondo che a loro non piace. In un liceo cattolico sono dunque stati invitati un imam, un rabbino, un prete e un pastore per rispondere alle domande degli studenti. «Perché – si è chiesta la direttrice del liceo – questo genere di riunione non si può organizzare anche in una scuola pubblica?».

I preti della mia parrocchia, venerdì 18 gennaio, sono andati a dare il proprio sostegno alla comunità musulmana e hanno anche potuto dire qualche parola di amicizia ai fedeli riuniti per la preghiera del venerdì. Nel Paese ci sono state molte altre iniziative di solidarietà e vicinanza, ma ci sono stati pure attacchi alle moschee e gesti incivili che hanno provocato timori nelle comunità musulmane ed ebraiche.

 

Charlie Hebdo è riapparso ed è stata annunciata la stampa di 7 milioni di copie. Tanto è bastato per far infiammare nuovamente il mondo. Va sottolineato che la redazione aveva evitato provocazioni, ma questo non toglie che molte delle persone che erano presenti alla manifestazione che ha fatto seguito all’attentato non siano d’accordo sul concetto di una libertà d’espressione senza responsabilità.

Queste persone affermano infatti: «Noi deploriamo l’assassinio dei giornalisti di Charlie Hebdo, ma noi non approviamo la linea editoriale di questo giornale». Alcuni hanno anche criticata la campagna mediatica e commerciale che è stata fatta sulla testata. La libertà (di espressione) non può essere separata dall’uguaglianza e dalla fraternità. Ma l’uguaglianza è passata sotto silenzio, in questi giorni, visto che le condizioni sociali e culturali di alcune periferie sono deplorevoli. Alcuni tipi di umorismo che possono essere contestabili e contestati quando si hanno i mezzi culturali per farlo, diventano un’aggressione, una grave ingiuria in altri casi e questo è quanto ha ben sottolineato papa Francesco parlando con i giornalisti durante il volo che lo portava nelle Filippine: Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri, non la si può deridere.

In questo dibattito sulla libertà d’espressione la fraternità ha in vece il ruolo del parente povero e lo hanno sottolineato filosofi e sociologi. Su un quotidiano popolare francese, una psicologa infantile ha affermato: «Bisogna ridare senso, un pensiero all’azione politica. Come imparare a difendere la diversità dell’altro? Come fare per vivere meglio insieme? Se non si affrontano queste questioni, io temo che da qui a qualche mese si passerà agli atti di violenza nelle scuole, contro forze dell’ordine, operatori sanitari, nelle stesse famiglie». È difficile sentirsi “fratelli” quando ci si sente considerato una specie di arretrato mentale o un terrorista in germe.

 

L’altro punto in discussione è quello della laicità. Per alcuni si è innanzi tutto francesi, successivamente si ha il diritto (e questo già è un bene) di essere musulmani, cristiani, ebrei, atei. La religione è un fatto privato, da esercitare presso le proprie abitazioni o nei luoghi di culto. «Signori preti, rimanete nelle vostre sacrestie», disse un generale al vescovo di Orléans che difendeva un obiettore di coscienza negli anni Sessanta.

Dunque, i religiosi non hanno diritto di parola nel dibattito sociale. Una cosa contraria al loro stesso essere e alla stessa… libertà d’espressione! Il dibattito è aperto. Il serissimo Osservatorio della laicità ha recentemente sottolineato la necessità di reclutare dei “cappellani musulmani” per le carceri. Un vescovo presente con altri alla marcia della pace, mi ha detto la settimana scorsa che degli uomini politici avevano scoperto meravigliati in quell’occasione che i responsabili delle varie religioni si conoscevano, si parlavano e lavoravano addirittura insieme per un mondo migliore!

Ognuno di noi ha nel suo ambiente, sul posto di lavoro, perfino nella propria famiglia, delle idee politiche, filosofiche o religiose differenti. Allora, quale società possiamo costruire insieme? In seguito alle tragedie di Parigi, ma anche della Nigeria e del Pakistan, Maria Voce, attuale presidente del Movimento dei Focolari, ha affermato: «Il dialogo più efficace è quello che si poggia sulla vita, sulla condivisione delle esistenza quotidiana (…) perché è indispensabile partire dalla conoscenza dell’altro e non della religione dell’altro per poter scoprire il vincolo di fraternità che lega tutti gli essere umani».

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