Libertà clandestina

Masih Alinejad è la fondatrice di “My Stealthy Freedom”, che combatte per la libertà delle donne in Iran e nel mondo, prendendo come simbolo di oppressione il velo islamico

Dopo le stragi di musulmani del marzo scorso a Christchurch, in Nuova Zelanda, la premier neozelandese Jacinda Ardern ha voluto esprimere la sua solidarietà ai familiari delle vittime indossando un hijab (il velo islamico) nero. Il gesto, per quanto apprezzato da molti, non è però piaciuto a Masih Alinejad, giornalista e attivista iraniana dal piglio deciso, promotrice e animatrice instancabile di My Stealthy Freedom (la mia libertà clandestina), un social che nasce come gruppo Facebook nel 2014 e che in questi anni è dilagato su tutti i principali social-media. Con lo slogan “svelarsi per liberarsi”, My Stealthy Freedom rivendica con forza il diritto personale delle donne iraniane di scegliere se indossare l’hijab, che nella repubblica islamica degli ayatollah è obbligatorio per legge fin dal 1979. «Usare uno dei più visibili simboli di oppressione delle donne islamiche in molti Paesi come gesto di vicinanza è oltraggioso», ha esclamato la focosa Masih Alinejad, che nel 2009 è fuggita dal suo Paese natale prendendo la strada dell’esilio, e da allora vive tra Londra e New York.

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L’ispiratrice di My Stealthy Freedom, in un’intervista del 2015, affermava: «Da quando ho lasciato l’Iran nel 2009, costretta a fuggire per le mie inchieste sono sempre stata molto attiva in Rete. Faccio da megafono a quelli che sono rimasti in patria. Un giorno postai una mia foto a capo scoperto scattata in Iran qualche anno prima. Una bravata, un attimo di libertà rubata, con la scritta: “Andiamo, chi di voi non ha una foto così scattata in Iran?”. La risposta ha sorpreso anche me: sono stata bombardata di foto. Centinaia di migliaia: così tante da spingermi a creare una pagina dove le donne possono esprimere se stesse e mostrare il vero volto dell’Iran». Dal 2016 My Stealthy Freedom sostiene anche la battaglia di moltissimi uomini che hanno deciso di solidarizzare con le donne postando foto che li ritraggono con il velo accanto a sorelle, madri e mogli senza velo (hastag #ManinHijab).

Il fenomeno è dilagato in Iran come forma di protesta civile e quasi non passa giorno senza che avvenga un episodio di “svelamento”, tanto da preoccupare non solo la “polizia morale” deputata al rispetto dell’imposizione, ma gli stessi politici e chierici sciiti. Intanto il profilo Instagram di My Stealthy Freedom ha superato i 2,5 milioni di follower. Nel gennaio scorso il vicepresidente del parlamento iraniano, Ali Motahari, si è fatto a modo suo interprete delle proteste avanzando la proposta di indire un referendum per decidere sull’obbligo del velo. La risposta delle manifestanti è stata pressoché corale: nessun referendum gestito da politici iraniani potrà mai abolire il diritto delle donne a una libera scelta. L’intento del possibile referendum sembra ovviamente quello di sancire lo statu quo, inducendo gli uomini a votare per il mantenimento dell’obbligo e insieme proibendo a moltissime donne di recarsi alle urne o comunque di esprimersi liberamente.

Intanto, in Iran, la persecuzione giudiziaria contro le donne che si tolgono il velo in pubblico continua. Il 10 aprile scorso Yasmin Aryani è stata arrestata in casa sua, a Teheran, ed è scomparsa. Sua madre, Monireh Arabshahi, che il giorno dopo si è presentata a un centro di detenzione per chiedere notizie della figlia, è stata arrestata a sua volta. La loro colpa è quella di essere apparse in un video postato sui social in cui appaiono insieme ad altre donne senza velo a un’uscita della metropolitana di Teheran mentre distribuiscono fiori alle passanti e parlano con loro. Non si sa dove si trovi Yasmin: la polizia informa che si trova in un centro di detenzione di sicurezza, senza precisare quale. Si sa invece dove si trova Monireh, sua madre: nel famigerato carcere di Shahr-e Rey, a Teheran, insieme a centinaia di altre donne rinchiuse in condizioni che violano ogni più elementare diritto della persona. L’accusa nei loro confronti non è stata ancora depositata, ma con tutta probabilità sarà la solita per questi casi: incitamento alla corruzione e alla prostituzione. Così è stato per Vida Movahed, condannata il 14 marzo scorso ad un anno di carcere per essersi tolta il velo in piazza Enghelab.

La raccolta internazionale di firme promossa da Amnesty International per la liberazione dell’avvocata iraniana dei diritti civili Nasrin Sotoudeh ha quasi raggiunto la quota di 149 mila firme. Nasrin Sotoudeh è stata condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate soprattutto per il suo impegno nella difesa in tribunale di molte donne iraniane che si sono tolte pubblicamente il velo per protestare contro l’obbligo di indossarlo.

 

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