Libano in crisi, ma la politica non si sa dov’è

Il Parlamento libanese ha tentato per la dodicesima volta, ma senza esito, di eleggere il presidente della Repubblica - incarico vacante da quando Michel Aoun ha lasciato la carica, per fine mandato, 8 mesi fa. I libanesi vivono con grande dignità una crisi economica spaventosa dalla quale non si vede via d’uscita
Libano crisi finanziaria
Crisi economica in Libano, i risparmiatori contro le banche: un manifestante tiene la bandiera libanese, mentre grida slogan fuori dalla Banca Audi durante una protesta per chiedere il rilascio dei risparmi bloccati dei depositanti, a Beirut, Libano, giovedì 15 giugno 2023. (AP Photo/Hussein Malla) Associated Press/LaPresse Solo Italia e Spagna

La settimana scorsa il Parlamento libanese (128 deputati) ha votato per la dodicesima volta per tentare di eleggere il presidente della Repubblica, incarico vacante da quando Michel Aoun ha lasciato la carica per fine mandato, ad ottobre 2022. Niente da fare, così come nelle 11 precedenti votazioni. Il più votato è risultato Jihad Azour, ex ministro delle Finanze e attualmente direttore del Dipartimento mediorientale del Fmi. Azour ha ottenuto 59 voti, 27 in meno degli 86 richiesti dalla Costituzione per risultare eletto. Dei restanti 69 deputati, 51 hanno votato per Sleiman Frangieh, leader del piccolo partito conservatore cristiano-democratico Marada (3 seggi in Parlamento), finora alleato dello schieramento vicino all’ex presidente Aoun; e 18 hanno optato per la scheda bianca o un voto di protesta. A conti fatti, quindi, dopo 8 mesi di sede vacante non si intravede assolutamente nessuna maggioranza in grado di eleggere un presidente della repubblica.

Lo stesso, anzi quasi peggio, si potrebbe dire per il governo, che c’è e non c’è allo stesso tempo: il premier (dopo l’abbandono di Hariri nel 2020 e il breve tentativo di Diab) è, da settembre 2021, Najib Mikati, miliardario e imprenditore di Tripoli; incaricato di nuovo a giugno 2022, e da ottobre facente anche funzione di presidente della Repubblica data la “vacanza” di un capo dello Stato che non si riesce ad eleggere. Di fatto, come scriveva sulla situazione politica il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour a luglio 2021, «se essere un miliardario è stato a lungo un vantaggio per imporsi sulla scena politica libanese, ora è percepito da una parte della strada come un simbolo del saccheggio delle risorse pubbliche da parte della classe politica».

Il crollo dell’economia libanese era iniziato nel 2019, prima della pandemia e dell’esplosione al porto di Beirut, che non hanno certo aiutato a migliorare le cose. Ad oggi, al mercato nero ci vogliono più di 93 mila lire libanesi per un dollaro (circa 100 mila lire per un euro). E va anche bene, si fa per dire, perché a marzo scorso si era arrivati a 140 mila lire per quell’unico dollaro. Con varie conseguenze, su tutte i prezzi alle stelle per le tasche delle famiglie libanesi – per tutto, cibo e benzina compresi. La corrente elettrica pubblica è quasi scomparsa e quella prodotta dai piccoli generatori privati costa parecchio, oltre ad inquinare non poco. Gli stipendi, per chi li ha ancora, sono rimasti quelli di 3 anni fa, e quando vengono corrisposti lo sono evidentemente tramite banconote che valgono quasi meno della carta su cui sono stampate. L’inflazione calcolata circa un anno fa (luglio 2022) era arrivata al 210 per cento, adesso forse è meglio non saperlo. Chiudono le scuole private (le migliori) e sono a rischio di chiusura anche molti ospedali, e non solo per mancanza di medicine e di corrente elettrica.

Per fortuna, o per disperazione, molti professionisti, e giovani, hanno lasciato e lasciano il Paese per lavorare all’estero: i libanesi da sempre non fanno troppa fatica a trovare lavoro ovunque, per la loro intraprendenza, il multilinguismo e l’ottima formazione internazionale che per le reti di connazionali presenti in mezzo mondo. E le rimesse degli espatriati (fornite a mano, perché delle banche non c’è da fidarsi) mantengono i parenti rimasti in Libano, al punto che esse rappresentano da tempo una voce significativa e irrinunciabile del Pil, crollato rovinosamente in questi ultimi due anni.

I libanesi all’estero e i loro discendenti, per inciso, sono più dei 4,5 milioni rimasti in patria (esclusi i profughi siriani, palestinesi, iracheni: circa 2 milioni, che pure ci sono). Non vi sono dati certi, ma la diaspora libanese potrebbe contare almeno 8 milioni di persone, di cui 1,2-1,4 milioni hanno mantenuto anche la cittadinanza del loro Paese. Sono in Brasile (soprattutto), Argentina, Colombia, Paraguay. E poi negli Stati Uniti, in Australia, Canada, Regno Unito, Sudafrica, Francia e negli stati membri dell’Unione europea, Italia compresa. Ma anche, e non sono pochi, negli Emirati Arabi Uniti, a Singapore, in Costa d’Avorio e Ghana. E sono musulmani sciiti e sunniti, cristiani (di numerose Chiese), e drusi.

In un territorio dove i cittadini vivono in condizioni drammatiche, e i profughi peggio, l’unica preoccupazione dell’élite politica sembra quella di tutelare la fettina di potere consegnato dalle suddivisioni confessionali, ormai diventate una sorta di pretesto “costituzionale” per legittimare la gestione corrotta dello Stato; Stato che è in realtà in balia di potenze regionali e internazionali, in ben altre faccende intrecciate ed affaccendate per preoccuparsi delle condizioni in cui vivono i libanesi.

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