Le “Novelle briantee” di Andrea Sciffo

Questo giovane autore trentaseienne, ben più che una promessa secondo Quirino Principe, Eugenio Corti e Mario Rigoni Stern, continua ad essere bellamente inattuale, nel buco nero culturale del presente. Lo è come lo era Adalbert Stifter nell’Ottocento, con la differenza che mantiene una vigile coscienza della contemporaneità, in controluce narrativa, cioè sapendo che il cosiddetto mondo attuale non è diverso nonostante le sue smorfie da quello rappresentato, del remoto o prossimo passato. I tre racconti che compongono la silloge (1) hanno un sottile comune denominatore: rispetto a ciò che la sedicente modernità considera accadimento, anzi evento (parola inflazionata da ogni banale annuncio televisivo), sembra non succedervi nulla, o rientrare nel nulla quello che vi succede. E qui il lettore accorto già scorge, in filigrana, la cifra cristiana del raccontare di Sciffo: un Giovanni Segantini che se ne va su per l’alpe col figlioletto per dipingere un grande, sovrano e misterico faggio, e non lo dipinge; un Hugo von Hoffmannsthal che, in chiusura del secolo XIX, passeggia per l’Italia longobarda, con ampia digressione sulla monzese corona ferrea, e sembra approdare solo al perduto, al non vissuto (ma non è così, proprio come nel primo racconto); un inedito contrappunto, nel terzo ampio racconto giunto alla sua stesura definitiva dopo precedenti versioni, tra un verosimile colloquio, nel 1830, di dialoganti conservatori (Metternich, padre Lanteri, Juan Donoso Cortés) preoccupati della piega che ha preso il mondo moderno precipitandosi verso il materialismo ideologico delle cose, e uno ancor più verosimile, nel 1980, cioè 150 anni dopo, tra conservatori di oggi che nessuno, da sinistra, mancherebbe di definire reazionari (si sa, sono parole da bambini e per bambini, ma vanno ancora molto di moda): Eugenio Corti, Mario Marcella, Augusto Del Noce, Emanuele Samek Lodovici, Rodolfo Quadrelli, e, in prospettiva, Vittorio Messori – solo il primo e l’ultimo viventi ancora la nostra vita mortale. Tre racconti del non fare, del non dire, del non allinearsi. Segantini di fronte a quell’albero sul crinale, la grande essenza secolare piazzata in cima alla strada per Cornizzolo resta senza parole, cioè, per lui, senza pennelli, perché come sa, ci dovrebbe essere l’amore nel fondo della sua opera, e quel soggetto lì nel paesaggio creato è evidentemente troppo pieno d’amore (ci proverà molto dopo il figlio a dipingerlo). Hoffmannsthal davanti allo sgocciolìo dell’acqua di una fontana ha la percezione del tempo che scorre e non scorre, del sopravviverci delle cose, del poter conoscere la vita solo per figure (san Paolo direbbe in parte o in modo imperfetto) pur cercando di adoperare unicamente il lieve pennello per scavare (Sciffo rappresenta assai finemente la delicatezza interiore del grande decadente), ed ha a quel punto l’intuizione dell’ineffabile, che lo porta a scrivere quel capolavoro in poche pagine che è la Lettera di Lord Chandos. I tecnobucolici del dopoguerra postglobale, che non hanno accettato il pensiero unico elettronico e la fine della scrittura e dei libri, sopravvivendo in armi nella zona lariano-pedemontana dell’alta Lombardia, attraverso uno spettroarcheofono captano la conversazione del 1830 e poi la confrontano con quella del I980: poco è cambiato, se non per l’aggravamento dei sintomi già allora emergenti, e l’umanità-senza-Dio vuole fare da sé, con risultati drammatici e in drammatico sviluppo. Fin qui Sciffo. Che si sia d’accordo o no con la sua visione apocalittica del presente, non si può non constatare che ci stiamo giocando niente meno che la partita dell’uomo stesso. E lui, l’autore di questi deliziosi racconti, ce lo fa anche letterariamente toccare con mano.

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