Le menzogne del potere

Cinema

Dividono sempre gli spettacoli di Pippo Delbono, regista e autore tra i più acclamati in Europa e non solo. Tra irritazione o plauso pieno, non lasciano mai indifferenti. Perché il teatro deve anche colpire le coscienze, scuotere, far discutere. Commissionato dallo Stabile di Torino diretto da Mario Martone per ricordare gli operai periti nel rogo della fabbrica della Thyssen Krupp, La menzogna trae ispirazione dai luoghi della tragedia per inoltrarsi nei pensieri e nei segni di quegli uomini, per approdare nei ricordi personali di Delbono e nel nostro tempo malato. Tempo di violenza, razzismo, indifferenza, ipocrisie e menzogne. Dove si può morire perché qualcuno non rispetta la vita degli altri, ritenuto intralcio per i propri affari.

Ma La menzogna non è tanto uno spettacolo di denuncia, come potrebbe sembrare, bensì un viaggio poetico, visionario, inquietante, dentro il dolore universale della vita. Che tocca la pietà. Inizia nel silenzio e col lento incedere di un operaio che, indossata la tuta da lavoro da una fila di armadietti, ricomparirà stendendosi poi coi fiori in mano dentro la bara trasparente che lo attende. Al filmato d’accusa di Alex Zanotelli sull’iniquo monopolio mondiale della ricchezza e dei suoi detentori, cui segue lo spot edulcorato dell’azienda tedesca che promette benessere, inizia la parata del potere. Via via si materializzano figure simili a fantasmi che vagano, a sopravvissuti che popolano la grande scena di ponteggi e grate metalliche. Entrano ed escono da una porta centrale, buia, soglia di un luogo ignoto che sembra fagocitare tutti. E dove uomini- cani a tratti presidiano l’ingresso. In una sorta di danza macabra, dall’atmosfera brechtiana cullata da musiche e canzoni anni Trenta, si susseguono in passerelle e pose uomini in smoking, donne in strass coperte da veli e con maschere grottesche o zoomorfe. E Delbono, officiante anch’egli della menzogna teatrale e della cattiva coscienza del potere, unto di brillantina e vestito da manager, infierisce con un bastone e ride sarcasticamente, scendendo anche in platea a fotografare gli spettatori.

Non sempre tutto è chiaro nella simbologia, nelle allusioni, nei rimandi visivi, nei silenzi o nei proclami. E non tutto si può approvare delle scene che mettono a disagio – come le nudità seppur pudiche e prive di provocazione gratuita – non sempre necessarie. Lo spettacolo, nella sua irregolarità, risente di certi stilemi ormai visti, ma colpisce per l’onestà della creazione, e l’esito finale dell’insieme con momenti di grande impatto emotivo e di immagini folgoranti. Come nella danza disperata e convulsiva sulle note concitate della Sagra della primavera; negli armadietti scossi da latrati ringhiosi; nei corpi senza vita portati sulle braccia come in una pittorica deposizione e adagiati per terra; o nel monologo di Giulietta che da una piattaforma urla l’amore impossibile per Romeo sulla musica squassante di Wagner.

L’idea complessiva di un girone infernale cede infine all’intima, disarmante confessione di Delbono, al suo mostrarsi indifeso, senza più la maschera dell’ipocrisia, denunciando la propria paura e scusandosi della menzogna che si porta dentro fin da piccolo. Perché tutti nascondiamo la nostra. Rannicchiato davanti all’uscio nero, l’inseparabile disabile Bobò lo aiuterà ad alzarsi, mentre si udrà la voce del regista sussurrare il desiderio di voler essere sordo e analfabeta, come l’innocente Bobò, per non sentire e non parlare delle brutture del mondo. E suggella lo spettacolo con una dedica al padre.

All’Argentina di Roma. Al Mercadante di Napoli dal 15 al 26/4. Quindi a Lisbona e ad Avignone.

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