Le ferite degli spettri

Testo esemplare in cui la trama e i suoi elementi visibili sono strumenti concreti di una metafora più profonda, Spettri di Ibsen manifesta l’odio per la menzogna; i doveri della coscienza personale contro le leggi scritte, della moralità umana contro il fariseismo borghese; il riscatto e la purificazione attraverso il dolore. Tutto questo troviamo nelle pieghe della vicenda di Oswald, giovane pittore assetato di vita e di luce, ammalato però nel corpo e nella mente di un male oscuro, conseguenza di atti che crede suoi, ma che si riveleranno causati dagli stravizi del padre. La madre, la signora Alving, si trova in fondo a una vita – la sua – nella quale ha dovuto soffrire e mentire per mantenere alla propria casa un decoro che il marito dissipatore non consentiva. Col ritorno del figlio si riaprono in lei le ferite di quei fantasmi dimenticati. Il regista Massimo Castri nella sua fedele lettura naturalistica impagina il dramma in un’ampia stanza lignea (di Claudia Calvaresi) quasi sempre immersa in una semioscurità rischiarata solo da due finestre sulle quali batte una pioggia incessante. Dentro questa soffocante atmosfera Castri scava magistralmente nel sottotesto, affidandone la lenta scopertura ad una Ilaria Occhini di toccante sensibilità, e a Luciano Virgilio nel ruolo del rigido pastore Manders. Nel suo regredire infantile l’Oswald di Pierluigi Corallo, vinto infine dalla malattia, risulta particolarmente efficace con quel grottesco berretto da soldatino mentre cammina a quattro zampe e invoca la madre di dargli il sole.

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