L’attesa tra un padre e un figlio

Il fiammingo Jan Fabre, attraverso l’assolo di Cédric Charron appositamente creato su di lui, rende omaggio alla relazione "filiale" sviluppata in 17 anni di lavoro comune tra il regista e il performer

 

Vestito di rosso, barba e capelli lunghi, fisico asciutto, sguardo severo, Cédric Charron emerge da una fitta coltre di fumo che dal palcoscenico scende rasoterra in platea. Tenendo in mano una lunga asta, il novello Caronte avanza remando. Leggermente diradatasi, la nebbia rivelerà via via la danza istintiva, energica, violenta e calma, ossessiva e tenera, di un figlio che, anche con le parole, si rivolge al proprio padre supplicandolo, a più riprese, di aspettare. Aspettare per potergli parlare, per rinviare la morte che lo separerà definitivamente al suo sguardo. L’uno, il padre, ha già visto tutto; l’altro, il figlio, deve ancora scoprirlo. E chiede tempo. “Attends, attends, attends… pour mon pére”, è una discesa agli inferi intesa come luogo di transito, come scandaglio interiore di un rapporto di amore.

In questo rituale d’addio, lo straordinario quarantaduenne performer mette in scena la sua storia facendone una confessione personale. Su di lui e per lui il geniale regista, coreografo, scultore e visual-artist fiammingo Jan Fabre ha plasmato questo assolo di grande forza e potenza evocativa, per identificazione poetica e umana dell’interprete, capace di catturare occhi e respiro, trasportandoci dentro un viaggio spirituale ed emotivo, «sull’altra sponda del tempo». È lì che Charron vuole condurre il proprio padre, cui si rivolge per tutto lo spettacolo, per prepararlo e accompagnarlo nell’ultimo passaggio della vita. «Papà, lasciami ricordare il canto del desiderio», gli ripete più volte nel ricordo immaginario, nel tentativo di fermarlo – ogni volta con una moneta depositata a terra, che rappresenta un momento del loro rapporto – in quell’attesa del titolo che è sospensione del tempo: del tempo rincorso e atteso, del tempo mancato, del tempo incompreso, svuotato, perduto. Immerso in quel paesaggio costantemente nebbioso – elemento drammaturgico con la complicità di un magistrale disegno luci -, Charron interrompe il flusso di parole delle sette stazioni del suo sofferto percorso, impugnando a turno tre microfoni rossi. Con uno parla di se stesso, col secondo si rivolge al padre, col terzo parla al suo padre artistico, cioè Fabre, con cui egli lavora da diciassette anni nella compagnia belga Troubleyn.

Tra voce e performance fisica alterna diversi sentimenti trasformandosi in una persona timida, sincera, supplichevole, rabbiosa, ostinata, vulnerabile, mendicante, trovando dentro di sé un dialogo interiore, amleticamente sdoppiato e riflesso nella figura paterna. Si ferisce, sanguina, si trafigge con l’asta; striscia, salta, rantola con movimenti di danza disarticolati e scomposti, ruvidi e guizzanti, nell’attesa di una risposta del padre. Esaurito il suo appello, traghettatore dei vivi e dei morti, stancamente ritorna nella nebbia, remando. Per scomparire al nostro sguardo emozionato.

 

Al Teatro CRT di Milano.

 

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