Vera Negri Zamagni è intervenuta all’incontro di Bologna incentrato sulle alternative possibili all’economia di guerra che appare sempre di più nei piani europei secondo il piano di riarmo da 800 miliardi di euro predisposto dalla Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen.
L’Italia da parte sua, in maniera perfettamente bipartisan, ha già compiuto da decenni una scelta di politica industriale relativamente alle società controllate da Finmeccanica, ora Leonardo, con la dismissione di interi settori del settore civile a favore della crescita della filiera delle armi strettamente collegata con gli Usa. Proprio a Bologna, recentemente, Leonardo ha dismesso il controllo dell’Industria italiana autobus, auspicabile volano di uno sviluppo della produzione di mezzi pubblici ed ecologici, manifestando l’interesse prevalente per il comparto della Difesa.
La professoressa Zamagni insegna, oltre che all’Università di Bologna, all’università statunitense Johns Hopkins di Bologna, Storia dell’economia, una materia che educa ad un pensiero critico. Tra le sue pubblicazioni troviamo una storia di Finmeccanica che è tra le poche opere sistematiche dedicate ad una delle nostre più grandi industrie, investita dal processo di privatizzazione del sistema delle partecipazioni statali.
Vera Negri Zamagni condivide con il marito Stefano Zamagni un forte sodalizio culturale. La professoressa dirige da anni la Scuola di formazione all’impegno politico e sociale promossa dalla diocesi di Bologna. Un recente volume Condividiamo la pace edito dalla Scuola nel 2024 raccoglie alcuni interessanti interventi incentrati sul “Capire i cambiamenti geopolitici, curare gli squilibri, promuovere la pace”.
Cerchiamo con questa intervista di sottolineare alcuni punti emersi nell’incontro di Bologna del 29 maggio 2025 promosso dal Portico della pace con la collaborazione di Città Nuova, dove Vera Negri Zamagni è intervenuta assieme a Stefano Zamagni, Linda Maggiori e chi scrive.
Quale è, a suo parere, la premessa fondamentale da porre quando si parla di “alternative possibili” all’economia di guerra?
La premessa fondamentale è che quando si arriva alle armi, si è già “perso”, perché significa che molte cose sono già andate male. L’obiettivo primario dovrebbe essere evitare che una situazione di conflitto degeneri al punto da dover ricorrere alla guerra, cercando di operare su tre livelli principali: la testimonianza, le istituzioni e la politica.
In che modo la “testimonianza” contribuisce alla costruzione della pace?
La testimonianza mira a rendere le persone pienamente consapevoli delle reali implicazioni e conseguenze negative della guerra. Attraverso la comprensione profonda degli effetti devastanti dei conflitti, si può arrivare a far cambiare mentalità e far capire che solo la pace può offrire la possibilità di migliorare le condizioni generali della società, la convivenza e la felicità pubblica.
Cosa si intende per “istituzioni di pace” e perché le considera così importanti?
Per raggiungere la pace, è necessario produrre “istituzioni di pace”. Queste non sono solo le istituzioni economiche e politiche, che presentano evidenti limiti, ma anche quelle che agiscono a livello associativo e culturale. Sono realtà preposte al governo dei vari aspetti della società che favoriscono il dialogo e aiutano a far emergere e risolvere i problemi prima che sfocino in conflitti. In questo senso è importante promuovere il “Ministero della Pace” o altre istituzioni capaci di promuovere reali azioni volte alla pace.
Come si deve agire al livello “politico”?
Dobbiamo tener presenti due aspetti: la prevenzione e l’aggiustamento. La prevenzione in politica significa comprendere le dinamiche attuali e anticipare gli sviluppi futuri, ascoltando e osservando ciò che sta accadendo prima che si verifichino danni maggiori. È evidente in tal senso il caso della Russia: già dal 2004 Putin aveva dichiarato il suo obiettivo di ristabilire la Russia come grande potenza, senza mai essere preso sul serio prima dell’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022. Un altro caso evidente riguarda la necessità di riconoscere in tempo i cambiamenti nel mondo, come ad esempio l’emergere di un’Africa più autonoma e consapevole, per evitare di continuare a comportarsi con mentalità coloniali che possono portare a futuri allontanamenti e conflitti fra l’Europa e l’Africa.
Una volta esploso il conflitto, è possibile arrivare ad una pace “giusta” come molti invocano su diversi fronti?
Quando si arriva alla fase di “aggiustamento” (ovvero, quando la prevenzione è fallita e la guerra è già avvenuta), a mio avviso è inutile illudersi di poter ottenere una pace “giusta”. La storia dimostra che dopo conflitti prolungati, non si ottiene mai una pace pienamente giusta. Nemmeno le guerre stesse sono giuste. È illusorio pensare di ricavare del bene da un fatto così tragico. L’obiettivo diventa piuttosto negoziare la pace che si può ottenere, quella che si riesce a “rattoppare” al meglio data la situazione, perché la pace è fondamentale per salvare vite umane.
Ha fatto l’esempio dell’Africa a partire dall’esperienza diretta con il Cefa in progetti di cooperazione internazionale. Cosa occorre fare a livello preventivo in questo grande continente in forte crescita non solo demografica?
I popoli africani non possono più tollerare politiche di tipo coloniale. Hanno sviluppato una maggiore consapevolezza e capacità di autogestione, come dimostra l’Unione Africana e l’area di libero commercio panafricana. A mio parere, l’Occidente, e l’Europa i primis, non si sono ancora resi conto di questi cambiamenti, continuando a comportarsi con una mentalità incapace di ascoltare e comprendere le nuove realtà, rischiando di portare ad un allontanamento e alla scomparsa dell’influenza europea dall’Africa, come dimostra l’evidente ostilità di molti Paesi francofoni verso l’atteggiamento di Parigi sempre più estromessa dal contesto della politica del continente.
Sulla questione della pace si continua a citare la lezione del libro di Keynes sulle “Conseguenze economiche della pace”. Perché è così attuale oggi?
Come è noto, John Maynard Keynes scrisse questo libro su “Le conseguenze economiche della pace”, nel 1919, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale per affermare che la pace di Versailles era stata una “pace stupida” che avrebbe inevitabilmente condotto a un’altra guerra. Questo esempio serve a sottolineare che la storia è fatta di compromessi e che anche la pace, se non ben concepita e negoziata, può avere conseguenze negative a lungo termine e portare a futuri conflitti. È un monito a non illudersi di poter imporre una “pace perfetta” o “giusta”, ma a gestire la realtà con consapevolezza delle sue imperfezioni e delle possibili ripercussioni.
In questa ricerca realistica di una pace duratura ha messo in evidenza l’importanza della comprensione e dell’ascolto per evitare e rimediare ai conflitti. Quanto contano di fatto queste componenti culturali ed umane?
Ritengo la comprensione e l’ascolto un tema decisivo, trasversale a tutti i livelli delle “alternative possibili”. A livello di testimonianza, è cruciale comprendere le implicazioni della guerra. A livello istituzionale, le istituzioni di pace dovrebbero favorire il dialogo e far emergere i problemi prima che scoppino. A livello politico, la prevenzione richiede di ascoltare e di rendersi conto di ciò che sta accadendo nel mondo. La capacità di percepire e reagire ai segnali prima che la situazione degeneri è fondamentale per limitare i conflitti e dover ricorrere all’aggiustamento, sempre più difficile in situazioni già compromesse.