Contro l’abbandono di borghi e paesi

Servono con urgenza i decreti attuativi di leggi fondamentali approvate negli anni scorsi: dalla legge sui piccoli comuni, a quella sulla green economy, fino al codice forestale. I piccoli comuni non chiedono assistenzialismo, ma strumenti e strategie per rilanciare questa parte essenziale del nostro territorio

Nel novembre scorso a Bologna Sergio Mattarella aveva parlato chiaro: «La montagna è una straordinaria ricchezza del Paese, alimenta la nostra cultura, è un tratto distintivo della nostra stessa identità. Occorre affrontare con determinazione i problemi dei cittadini e delle comunità che vivono nei territori di montagna, spesso lontano dalle grandi arterie di comunicazione, talvolta sfavoriti da servizi meno accessibili o più difficilmente disponibili». Ancora Mattarella proseguiva: «È necessario approntare politiche attive per evitare che si spopolino borghi e paesi, perché l’abbandono di questi rischia di provocare squilibri nei territori, fratture nella società e un grave impoverimento dell’ambiente, i cui danni si ripercuoterebbero ovunque».

È stato in qualche modo “strano” non aver sentito discutere di questi temi nel corso della campagna elettorale che ha portato alle elezioni di marzo 2018. I temi legati alla coesione tra territori “interni” e montani, lontani dai centri urbani, non sono entrati nel dibattito pubblico. Nonostante il monito di Mattarella che peraltro più volte, negli ultimi due anni, era tornato sul tema. Ci crede il Presidente. Quanto afferma ha solide basi nell’articolo 44 della Costituzione, secondo comma, dove si fa un preciso riferimento alle aree montane e agli specifici provvedimenti che lo Stato deve mettere in campo in favore di queste.

I 3.850 Comuni montani non hanno dimenticato quelle parole di Mattarella. E le hanno riprese con forza venerdì scorso, sempre a Bologna, nel corso del Congresso della loro Associazione, l’Uncem (Unione nazionale dei Comuni e degli Enti montani), che ha visto unirsi 180 “delegati” di sindaci e amministratori di tutta Italia. Un confronto per mettere in fila i temi da sottoporre a governo e nuovo parlamento, all’insegna del dialogo e del confronto.

Non certo una lobby, una “categoria”, bensì rappresentanti di territori che lavorano per lo sviluppo sociale ed economico delle zone alpine e appenniniche, che hanno sofferto cinquant’anni di spopolamento. Un milione di persone ha lasciato le Alpi tra il 1950 e il 1990. Le Alpi sono state lo spartiacque, barriera e confine, scivolo verso il fondovalle e le zone montane più vicine alle città – come Torino, Cuneo, Bergamo, Milano –, quelle dove abbandono e spoliazione di uomini e risorse sono state più forti.

Oggi che le Alpi tornano a ripensare il proprio ruolo nel cuore dell’Europa – con la nascita della strategia macro-regionale alpina, ad esempio –, i comuni si riscoprono baluardo e fondamento dello sviluppo locale. Cioè come su Alpi e Appennino si agisce affinché aumentino Pil e posti di lavoro, si mantengano servizi, si pongano gli enti locali in relazione tra di loro per evitare eterni campanilismi ed errate soluzioni individualiste. Succede, è successo, anche tra comuni (e tra sindaci).

Per dare ossigeno alle realtà locali, cinque anni fa è nata, e vive oggi, la Strategia nazionale per le aree interne. Settanta i territori italiani pilota (dalla Val Maira alle Madone, fino alla Sila e su fino alla Val Camonica), nelle valli alpine e appenniniche, che stanno sperimentando strumenti per migliorare i servizi, favorendo la crescita e il mantenimento delle comunità. Da 8 a 60 milioni di euro investiti per ciascuna area, sotto la guida di economisti e seguendo le necessità di studenti pendolari, Pro Loco, associazioni locali, terzo settore e ovviamente Sindaci. Una straordinaria novità nella pianificazione territoriale per il Paese.

Poi, nel 2017, è arrivata la legge sui piccoli comuni. Era dall’inizio della Repubblica che non veniva varato dal Parlamento un articolato con al centro i borghi, i paesi, le loro specificità. Con la dotazione di un fondo da 160 milioni per i prossimi sei anni, oggi attende soluzioni normative (uno o più decreti attuativi) per dire a comuni e unioni di comuni, come spendere quelle risorse. A Bologna, venerdì scorso i comuni hanno chiesto al governo e al parlamento di fare in fretta, per la piena attuazione di una legge definita “storica”. Non da sola però. A questa si uniscono altri due provvedimenti legislativi, già approvati dalle aule di Camera e Senato, che devono trovare “gamba” e slancio nei prossimi mesi, da questo governo in carica e dal lavoro del parlamento.

Si tratta del Codice forestale, la prima legge italiana che mette al centro 12 milioni di ettari di foreste ribadendo l’importanza della “gestione attiva” del bosco, per evitare crescita senza controllo facendo leva sull’abbandono dei territori.

E poi la legge sulla “green economy”, ormai datata 2015, che tra i suoi 75 articoli comprende anche l’avvio delle green communities e delle oil free zones, aree del Paese dove si sperimentano sistemi per eliminare combustibili fossili e utilizzare solo fonti rinnovabili, unite all’efficientamento energetico degli edifici. Un testo che risponde a molte questioni poste dalla enciclica Laudato Si di papa Francesco e ai fronti aperti dagli accordi di Parigi sul clima.

I comuni montani sgombrano il campo: non chiedono “assistenzialismo”, risorse a pioggia o finanziamenti tanto per mettere bandierine. A regioni, palazzo Chigi, Montecitorio e palazzo Madama guardano con proposte e con la volontà di condividere precise strategie. Di futuro. Un piano ad esempio per incentivare e mantenere residenzialità nelle zone interne del Paese, più lontane dai poli urbani ove sono ubicati i servizi.

Per evitare la desertificazione commerciale, grazie a incentivi e sistemi fiscali differenziati per le aree montane. Servono una pianificazione culturale, una visione che permettano di ridurre sperequazioni, divario digitale e invertire il segno negativo davanti a quei numeri descritti da Istat e Ocse dove si evidenziano le grandi, eccessive concentrazioni di abitanti nelle aree urbane al 2050. Anche per questo, per evitare nuove fratture nel Paese, a Bologna i sindaci e gli amministratori locali hanno voluto aprire idealmente e politicamente una “nuova stagione”, nella quale non si parli solo di riforme – comunque da varare anche per il sistema di enti locali –, bensì di strategie per i “piccoli”, per i borghi delle aree montane e interne, vero tessuto connettivo del Paese.

 

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