La svolta dei media cattolici

Quante divisioni ha il cardinale Ruini? Parafrasando Stalin – che ai tempi di Pio XII ironizzava sulla nullità bellica del Vaticano -, qualche magnate della comunicazione potrebbe domandare dove mai vuole andare la chiesa cattolica italiana in fatto di etere e di stampa. I confronti muscolari con le grandi reti non servono a nulla, ma non per questo va sottovalutato il composito universo comunicativo legato nel nostro paese alla chiesa. Oltre al quotidiano a diffusione nazionale Avvenire, recentemente rinnovato nell’impostazione, all’agenzia di stampa Sir, alla tivù satellitare Sat 2000, stanno sviluppandosi antichi e nuovi strumenti. I settimanali cattolici, ad esempio, vivono da tempo una stagione di crescita e di radicamento nel territorio. Con le 145 testate (comprensive di due bisettimanali, due mensili e sei quindicinali), sforna 990 mila copie di tiratura. Si va da Il cittadino, bisettimanale di Monza, con le sue 50 mila copie ai periodici del Sud, con tirature e risorse modeste, ma che stanno crescendo nel numero di pagine e in diffusione. Il circuito inBlu raccoglie invece oltre 200 radio locali e si affianca a BluSat, l’agenzia radiofonica che fornisce programmi di vario tipo (dalla cultura alla musica) e tredici notiziari. Sono 44 le televisioni locali di ispirazione cattolica legate al consorzio Corallo, con presenze significative come quelle di Tele Lazio, che copre l’intera regione, e Tele Chiara, che trasmette da Padova. Chi poi non rammenta i vecchi cinema parrocchiali. Lontano ricordo? Nient’affatto. Dopo il fulgore degli anni Sessanta con 6.000 sale (la metà di quelle italiane), nel ’99 se ne contavano 650. Poi la ripresa, con la nuova denominazione (sala di comunità), dove al cinema si aggiungono teatro e appuntamenti d’approfondimento culturale. L’Acec, l’associazione cattolica degli esercenti, ne conta adesso 834. In una sorta di stati generali, i responsabili di tutti questi strumenti di comunicazione si sono ritrovati a Roma, convocati dalla conferenza episcopale, per un confronto su un tema di tutto rispetto “Parabole medianiche. Fare cultura nel tempo della comunicazione”. Che la convocazione costituisse un segnale di rinnovato impegno, non c’erano dubbi. Era infatti la prima volta che si trovavano insieme i responsabili di tutti gli ambiti della comunicazione. Ma non solo. La novità poggiava anche sulla presenza degli operatori della cultura, chiamati per iniziare un cammino congiunto tra i due ambiti. “Nell’eccesso di fonti informative, che proprio per questo rischia di creare un vuoto di comunicazione – aveva indicato il noto biblista Gianfranco Ravasi – i cattolici devono tornare a parlare dei grandi significati dell’esistenza: vita, morte, vita dopo la morte, dolore e mistero, pace e guerra, bene e male, violenza e giustizia”. Temi grandi e temi quotidiani che si scontrano con il mutamento dei linguaggi e con lo sviluppo rapidissimo e dirompente delle nuove tecniche di comunicazione. È il contesto di oggi, dove i mezzi di comunicazione condizionano la cultura e ne segnano i tempi, i ritmi e gli argomenti, dove i mass media scuotono i tradizionali canali di trasmissione del sapere e i criteri di interpretazione della realtà. “L’incidenza dei media nei processi formativi della mentalità, dei criteri di giudizio e della stessa visione religiosa della vita ha raggiunto livelli molto alti”, aveva avvertito il cardinale Ruini in apertura dei lavori. Da qui, la necessità di una svolta, com’è stato auspicato. “Vorremmo segnare il passaggio – chiarisce mons. Claudio Giuliodori, direttore dell’ufficio Cei per le comunicazioni sociali – da approcci parziali ad una visione unitaria e ad un cammino non episodico legato agli orientamenti pastorali di questo decennio, cioè comunicare il vangelo in un mondo che cambia. Quindi nuova attenzione di tutta la comunità ecclesiale per riuscire a fare cultura attraverso la comunicazione”. “Grande sfida, ma appassionante – commenta Marcello De Stefano, direttore di Dialogo, settimanale diocesano di Taranto -. È un momento di rilancio anche per noi. Stampiamo 2.000 copie, ma è già uno strumento del dibattito culturale in corso nella città. Vogliamo che da periodico della diocesi diventi strumento della comunità “. La Voce Misena si pubblica a Senigallia da 90 anni. 2.500 le copie attuali. “Ma sta crescendo in qualità e diffusione – avverte il responsabile, don Giuseppe Cionchi -. Pur se piccoli, siamo un punto di riferimento anche per la società civile”. Pure le radio locali stanno raccogliendo la sfida, e il pubblico sembra rispondere. “Ascolti in crescita, dieci dipendenti a contratto, rapporto con le scuole”, elenca Giovanna Curiale, responsabile di Radio Spazio Noi, emittente della diocesi di Palermo, sorta nel ’93, emblema di un Sud indomito pur nella limitatezza delle risorse. “La novità è che c’è un crescente interesse per l’informazione cattolica che si pone in alternativa all’onda prevalente”. Molti più mezzi sono a disposizione di Cittanova, la radio diocesana di Cremona (copre però otto province), in attività da 17 anni. “Abbiamo grande attenzione al territorio e alla sua storia – spiega il direttore don Attilio Cibolini -, dialoghiamo con la politica e la cultura. Il pubblico ci apprezza perché siamo calati nella vita della gente e cogliamo le cronache del bene”. Le difficoltà economiche non mancano, ma “il vero problema – precisa – è credere in quello che facciamo: questi mezzi sono oggi indispensabili per la nuova evangelizzazione”. C A S E T T I FUORI DAL CORO CON LA LINGUA DI TUTTI “Attenzione a non esagerare. C’è la leggenda della dovizia di mass media in mano alla chiesa. Le radio cattoliche, ad esempio, sono molto numerose, ma se vai a vedere si tratta di realtà piccolissime, spesso disastrate dal punto di vista economico, rette dal volontariato. I grandi mezzi li hanno piuttosto i grandi gruppi”, sottolinea Francesco Casetti, docente di Linguaggio dei media all’università Cattolica di Milano. Professore, la chiesa sta compiendo un grande sforzo, anche economico, nei mass media. Ma quali risultati vede? “I risultati della comunicazione della chiesa non vanno giudicati sul metro dell’audience con cui vengono misurati Canale 5 e Raiuno. Vorrei evitare una logica efficientista o quantitativa. Non è la quantità dell’ascolto di Radio Maria o di Sat2000 che è significativa, anche se in alcuni casi ci sono grandi ascolti. Sono del parere che non si deve gridare al successo per i grandi ascolti, né pensare che il piccolo ascolto significhi tempo o soldi perduti. “C’è piuttosto in gioco un elemento fondamentale, legato all’inculturazione della fede, e cioè il dialogo con la cultura contemporanea, che è una cultura in buona parte mediale. Ecco allora l’impegno di annunciare nella lingua dei tempi la verità del vangelo. O noi però ci impadroniamo del linguaggio dei tempi per potere continuare la missione della chiesa, oppure ci tiriamo fuori dalla storia. Ma non è questo ciò che è richiesto ai credenti”. Quali tratti distintivi rileva nei media cattolici? “Spesso i media cattolici estendono il linguaggio che si usa all’interno di un’assemblea ecclesiale. Primo tratto, dunque: la fatica di parlare il linguaggio dei tempi. Secondo: non parlano fino in fondo il linguaggio dei tempi; anche la differenza, la distinzione sono un elemento positivo, purché non si cada nel linguaggio specialistico o burocratico. Terzo: viene testimoniato che si possono usare questi mezzi per il bene senza tutti vizi (personalismo, esibizionismo, sensazionalismo) che questi mezzi spesso chiedono”. Talora sono proprio i cattolici a non apprezzare sufficientemente i media cattolici. Quali, secondo lei, ragioni? “Quando i media cattolici sono prosecuzione diretta e con immutato linguaggio della predica domenicale”. Il mondo laico guarda invece con attenzione e riconosce autorevolezza a certi media cattolici. Come spiega? “Essere fuori dal coro, per certi aspetti, è anche positivo. Ma non basta esserne fuori. La vera scommessa parlare la lingua del tempo ed essere fuori dal coro. Credo pure che attraverso i nostri media dobbiamo portare po’ più di inquietudine nel nostro mondo, usare i mezzi come luogo di dibattito, di riflessione, di approfondimento, non soltanto come canale di un annuncio tradizionale della buona novella”.

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