La storia di Emanuela: Norcia, il restauro e il terremoto

Su proposta di mons. Boccardo, arcivescovo di Spoleto - Norcia, Emanuela D’abbraccio, unica restauratrice di Norcia che nel terremoto ha perduto casa e laboratorio, proseguirà il suo lavoro all’interno del Museo diocesano di Spoleto. Sotto gli occhi dei turisti in visita, ridando vita ad alcune opere d’arte lesionate dal terremoto.
Emanuela D'Abbraccio con la tela della Madonna con Bambino

Voi sapete come cresce una passione? È un processo misterioso, difficile da decifrare. Forse, s’impianta come tante cose in natura, partendo da un seme. Un seme che qualcuno sparge e che trova terra fertile, che poi si nutre dei profumi che respiri con l’aria, di improvvisi bagliori, di parole udite pronunciare, attimi di colore.

La passione di Emanuela per l’arte e il restauro è nata a Norcia, il suo paese; dentro il negozio di antiquariato di Guglielmo, per gli amici Memmo, che poi era suo padre, antiquario che ha svolto il suo mestiere con passione per più di settant’anni. Emanuela è cresciuta dentro l’arte, l’ha respirata, riconosciuta, ascoltata, se ne è nutrita, fin da piccola. «L’età dell’oro dell’antiquariato, quando sono arrivata io, era già finita – racconta – ma in negozio c’erano sempre opere belle. Appena finita la scuola, correvo lì. Papà mi raccomandava di non star dietro a quelle cose, come le chiamava lui, che dovevo laurearmi».

Invece, come spesso accade, il “danno” era già stato fatto ed Emanuela si era innamorata di quelle cose. Così, finito il liceo, si era iscritta al corso di formazione per Addetti al restauro, manutenzione e catalogazione dei Beni Culturali di Spoleto. Era il 1979, il corso era promosso dalla Regione Umbria e curato dall’Istituto Centrale di Restauro di Roma, diretto all’ora da Giovanni Urbani. Quattro anni di studio e di pratica intensissimi che la rendono una professionista del restauro. Così, comincia la sua carriera che la porta a lavorare in giro per l’Italia, collaborando anche con gli Uffizi e i Musei Vaticani, ma anche nella sua Umbria. Grazie alle frequenti collaborazioni con la Curia apre il suo laboratorio a Norcia, in una stanzetta sotto la sagrestia della chiesa di Santa Maria Argentea.

Ecco, quando tutto è successo, stava lavorando proprio a casa, proprio a Norcia. «Il mio laboratorio era già inagibile, ma avevo tre cantieri nella Basilica di San Benedetto: erano due altari del 1700 e una tavola raffigurante San Lazzaro, grande due metri e mezzo, per uno e ottanta. La tavola si è salvata perché poco prima del terremoto l’avevo collocata negli scavi della chiesa, dove c’era una stanza idonea a lavorare. Ma con la scossa del 30 ottobre tutto il resto è rimasto sotto. ».

Emanuela rimane in silenzio, e io glielo chiedo, sì, cosa si prova a perdere la propria creatura. Quella cosa cui avevi ridato bellezza e che tutto insieme svanisce. «Non si può immaginare. Era il lavoro che facevo da tre anni e ne sarebbero serviti probabilmente altri tre per terminarlo. Vedersi crollare giù tutto… è indescrivibile. Sai quante volte sono tornata in piazza e mi sono appoggiata alle transenne a guardare quella distruzione? Mi dicevo: Emanuela renditi conto che è vero, non stai sognando, è tutto vero. E le fitte, le fitte di dolore! Poi, anche la mia casa è andata…».

La casa di Emanuela non è crollata, ma è stata dichiarata inagibile e dovrà essere abbattuta:«Era stata costruita da mio nonno nel 1973. Può una casa tradirti? Io non ci potevo credere, ho chiamato tanti ingegneri per verificare ma è così e ora, o crolla da sé a breve, o la devono buttare giù. Noi ci siamo organizzati con una casettina di legno, in giardino». Ma puntualizza: «Noi siamo stati fortunati, perché qui non abbiamo perso le persone, come in altri posti».

Nel frattempo, con il suo caschetto giallo, Emanuela si mette a disposizione dei Vigili del fuoco, dei Carabinieri del Tpc e della Soprintendenza per aiutare nel recupero delle opere d’arte sepolte dalle macerie. «Il recupero più bello è stato la sera del 29 ottobre. Quando abbiamo ritrovato la tela della Madonna Addolorata nella chiesa di San Filippo Neri (ma tutti a Norcia la chiamano la chiesa della Madonna Addolorata). Il campanile era in condizioni precarie, poteva crollare da un momento all’altro. Si sono addentrati i vigili, al buio, hanno preso questo dipinto e l’hanno portato fuori. A quel punto abbiamo attraversato la piazza, e le persone che ci incontravano piangevano perché vedevano che l’immagine tanto importante per Norcia era salva». Emanuela sorride fra sé. «A quel punto, però ci siamo chiesti: dove la appoggiamo per tenerla al sicuro? Con il parroco, ci siamo detti: nella chiesa di Santa Maria Argentea, che è inagibile, ma la sagrestia è solida, mettiamola lì». Ma l’indomani, il 30 ottobre, viene giù tutto. «La disperazione! Avevamo fatto tanto per salvarla! Ma quando siamo arrivati: l’unica parte che non era crollata era proprio la sagrestia! Così, la Madonna Addolorata si è salvata e per noi è stato come un miracolo».

Poi, qualche giorno fa, è arrivata la proposta dell’arcivescovo di Spoleto di trasformare una delle stanze del Museo diocesano in un laboratorio di restauro aperto. «Mi ha detto: che ne dici di creare uno spazio per il restauro delle opere terremotate dentro il Museo Diocesano? In modo che i turisti possano assistere alle varie fasi del restauro? A me si sono illuminati gli occhi! Ho accettato subito. È bello poter ricominciare a lavorare ed è meraviglioso poterlo fare qui dentro». Mentre parliamo, Emanuela non è da sola: davanti a lei c’è una tela grandissima, che aspetta di essere restaurata. «È il dipinto della Madonna con Bambino tra i Santi di Anastasio Fontebuoni , pittore fiorentino del 1600 che apparteneva alla chiesa di Sant’Agostino di Norcia che è crollata. Praticamente il Museo Diocesano di Spoleto, in questi giorni, ospita due terremotate: la tela e me!» scherza Emanuela.

Mi chiedo dove trovi la sua forza, cosa l’ha fatta tenere duro finora: «Non saprei. Quando ti trovi che casa non ce l’hai più, il laboratorio nemmeno e le chiese sono crollate… Temi di crollare anche te. Temi che tutto sia finito. Da lì, la spinta a fare. A darsi da fare».

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