La Spagna vive

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Un grande manifesto alla stazione dove ogni giorno prendo la metro attira la mia attenzione. È lì da giorni, anzi, settimane, da quando è incominciata ufficialmente la campagna elettorale. È una fotografia a tutto busto del ministro dell’Economia, Rodrigo Rato, secondo nella lista elettorale del Partito popolare per la provincia di Madrid. Alla destra del suo rassicurante volto, lo slogan della campagna: Vamos a más, che si può tradurre con Andiamo oltre, Andiamo avanti. A sinistra, una mano anonima ha tracciato a grossi caratteri un altro slogan circondato da una vignetta che parte dalle labbra del ministro: Viva el mal, viva el capital, che non occorre tradurre. È questo secondo slogan che mi ha colpito. L’avevo già visto prima ed avevo fatto un’interpretazione lineare di quel che l’anonimo graffitaro voleva mettere in rilievo. Per lui, i due termini della rima ironica vogliono indicare che la gestione del ministro d’Economia e del suo partito, anche sia splendida, va denunciata. C’è bisogno di spiegare perché? Ora, a distanza di giorni dall’attentato sui treni di Madrid, la rima da ironica diventa macabra, e il graffitaro quasi profeta. Cosa c’è stato se non una grandissima manifestazione del male? Quel male di cui fanno tesoro quelli che accumulano nel loro personale curriculum stragi. È il loro capitale. Da qui nasce, penso, l’angosciante interrogativo che ha pervaso la coscienza collettiva di tutta la Spagna. E lo si è visto espresso sulle labbra delle vittime, sulle labbra dei loro famigliari, sugli striscioni nelle manifestazioni, sui fogli di carta che l’uno o l’altro portavano, sui volti addolorati… Cosa ha nella testa una persona che fa una roba del genere?, mi domandava un compagno al lavoro. Ha le stesse facoltà che abbiamo io e te: intelligenza, volontà, sensibilità…, ma le ha messe a disposizione di interessi che usano il male come metodo, ecco, senza rendersi conto che il metodo contraddice il fine cercato. Tutto lì. I suoi valori sono capovolti e riescono a mettere con freddo calcolo la sua persona al servizio di una forza che distrugge. Non è questo il male, non è questo l’odio? Ma l’odio ha provocato una reazione che non può essere che uguale, seppur di segno contrario. È incredibile quanta capacità di risposta e quanta solidarietà si siano viste in questi giorni a Madrid, in tutta la Spagna, ed anche in Europa. I testimoni che tuttora vediamo alla tv fanno rabbrividire, uno più dell’altro. E poi, la solidarietà istituzionale, con misure per aiutare le vittime, e quella dei professionisti (medici, psicologi, avvocati) messisi a disposizione, e quella dei tassisti, che offrivano viaggi gratis, e quella degli alberghi, che mettevano a disposizione camere gratis, e quella della compagnia Iberia, che offriva due biglietti gratis ai famigliari che volessero riportare i loro morti al paese d’origine, e quella dei sacerdoti, e quella di ogni singolo cittadino che andava a donare il suo sangue, finché i servizi si sono collassati. E non si finirebbe più! Si è parlato, sì, di manipolazione informativa da parte del governo nel diffondere le informazioni che man mano emergevano sull’attentato. C’è stata poi la disinformazione promossa dai gruppi mediatici contrari al governo, che vedevano in quella manipolazione un interesse elettorale. Si sono verificati anche episodi di protesta sabato, giorno di riflessione prima delle votazioni, che hanno rischiato di alterare seriamente il processo elettorale. Ma in realtà l’angoscioso interrogativo non si scioglie conoscendo gli autori dell’attentato. Il perché è molto più profondo. Ormai si sa che le vittime sono state immolate agli interessi di Al-Qaeda, e non a quelli dell’Eta; ormai sono stati effettuati una decina di arresti; ormai si è sperimentata una specie di catarsi collettiva uscendo tutti in piazza e cacciando via dal governo il Partito popolare; ormai si sono aperti orizzonti di cambiamento col Partito socialista al potere; ormai… Ma la paura, questa non l’abbiamo ancora scongiurata. Continuano gli omaggi alle vittime qua e là, e ciò ne è un segno. La campagna elettorale che sfociava nelle urne del 14 marzo era passata senza infamia né lode, come si dice qui; cioè, quasi inavvertita. Voglio dire: è stata correttamente seguita dalle diverse tv, si sapeva che c’era, ma non se ne parlava. E non se ne parlava perché non c’era niente di rilievo di cui parlare. Non è del tutto così, perché un po’ di tensioni ci sono state, sempre a proposito dei nazionalismi indipendentisti, da quando è cambiato il panorama politico della Catalogna qualche mese fa. Comunque, nelle elezioni generali era troppo chiaro chi avrebbe vinto un’altra volta: tutti i sondaggi pubblicati prima dell’attentato davano come futuro presidente del governo Mariano Rajoy, candidato del Pp. Chi avrebbe mai pensato che tre giorni prima delle votazioni si sarebbe svolto il più macabro atto elettorale immaginabile, l’ultimo, il conclusivo, perché infatti tutti i partiti hanno sospeso i loro meeting conclusivi, previsti per venerdì? Al loro posto si è svolta la più grossa manifestazione pubblica che ci sia mai stata: 12 milioni di persone, quasi un terzo della popolazione, hanno dimostrato la propria solidarietà con le vittime e i famigliari. Gente di tutti i tipi, persa nella moltitudine, cercava di tracciare stelle di luce, condividendo le angosce con chi aveva accanto. E dobbiamo ammettere che come atto elettorale è stato riuscitissimo, ha capovolto tutte le previsioni. C’è chi vuole afferrarsi al fatto che, più ci avvicinavamo a domenica 14, meno punti distanziavano i due candidati. Ma questa è un’illusione, perché si fa fatica, e molta, ad ammettere che il terrorismo ce l’abbia fatta, sia riuscito cioè a cambiare l’intenzione di voto immolando agli dei della democrazia 190 vittime. Basta un occhiata ai risultati per capire che tanti hanno detto di no alla politica portata avanti dal Pp nell’ultima legislatura, in particolare nell’ultimo anno, pur non essendo attirati dalle promesse del Psoe. Su 33.473.081 votanti, con una partecipazione del 77,21 per cento (mai prima registrata), il Pp ha ottenuto l’appoggio di 9.630.512 elettori (690.666 in meno del 2000), mentre il Psoe ha attirato 10.909.687 (2.990.935 in più), anche se non ha ottenuto la maggioranza assoluta che invece raggiunse il Pp nel 2000 con 588.509 in meno (10.321.178 voti). Chi ha deciso allora la vittoria dei socialisti? In parte la modesta crescita dei piccoli partiti che normalmente riescono ad avere rappresentanza parlamentare (tutti insieme, 190.458 voti in più che nel 2000), ma anche un lungo elenco di raggruppamenti minori di diverso carattere (un centinaio), che non hanno raggiunto una rappresentanza parlamentare, e che nel conteggio dei voti del 2000 nemmeno erano presenti. Parliamo di più di 800 mila voti. Aggiungiamo poi i 406.789 voti in bianco e i 261.590 nulli, e avremmo davanti una bella fetta di quasi un milione e mezzo di persone che hanno risposto alla consegna di combattere il terrorismo con le armi della democrazia, quando tali armi in realtà erano state già truccate dal terrorismo. José Luis Rodríguez Zapatero, una volta confermata la sua elezione, ha voluto iniziare il suo intervento davanti alle camere della tv con un minuto di silenzio. Ha promesso poi di governare per tutti e con umiltà, di portare avanti un cambiamento tranquillo e di agire con dialogo, responsabilità e trasparenza per la coesione, la concordia e la pace. Veramente glielo auguriamo. Se è vero che un nuovo governo merita sempre la fiducia da parte di tutti i cittadini, questo ha in più il bisogno di sentirsi molto spalleggiato, perché certamente non è di buon augurio iniziare una legislatura grazie al voto di duecento vittime, alcune delle quali nemmeno avevano il diritto al voto, perché giovani o stranieri. La stazione di Atocha è diventata ora un grande santuario. Un mare di candele copre la banchina dove è esploso il primo treno, ma anche altri angoli di questa prima stazione ferroviaria di Madrid. Tanti sanno ormai che la stazione prende il nome da una via vicina, che parte dalla facciata del vecchio edificio in ferro e vetro del 1892, e arriva al cuore sto- rico della città. Ma pochi sanno che la via, a sua volta, prende il nome da una invocazione alla Madonna, Nuestra Señora de Atocha, alla quale è fortemente legata la casa reale già dal XI secolo. Da questa stazione passano ogni giorno migliaia e migliaia di persone per recarsi al lavoro e poi tornare a casa nelle diverse città-dormitorio che circondano Madrid. D’ora in poi sarà inevitabile legare questo incrocio di cammini ad un ricordo che per i più sa di mistero, di ignoto, di trascendente. Oggi, anche se non devono passare da lì, tanti si avvicinano alla stazione per dare sfogo alle lacrime. Davanti alle candele, i messaggi, le foto, i fiori… ci si raccoglie in silenzio. Si prega, si cerca una risposta, si ringrazia anche Dio per numerosissimi casi di persone che in un modo o nell’altro si sono salvati della strage. Abbiamo sentito tante testimonianze in questi giorni! Ma ce n’è una che fa venire la pelle d’oca. Si è sentita poco perché veramente non è usuale. È logico pregare per i morti, come è logico pregare per i feriti e i famigliari e occuparsi di loro. Ma pregare per i terroristi! Eppure sono loro che hanno più bisogno delle nostre preghiere. Solo una forza soprannaturale potrà rimettere a posto la loro coscienza. L’ombra e la grazia Un giovane maestro sfugge per miracolo all’attentato. Nel suo racconto la tragedia e la speranza. L’ombra e la grazia Oggi, una settimana dopo l’orribile strage accaduta l’undici marzo a Madrid, mi prende una sensazione molto strana, la sensazione di afferrarmi con fermezza alla vita che Dio ci ha donato, e che a me, personalmente, ha regalato, permettendomi di continuarla da quel fatale 11 marzo in poi. Quel giorno, come tutti i giorni da quando vivo a Torrejòn, la mia routine è stata quella di alzarmi presto per poter arrivare al lavoro a Majadahonda, all’estremo opposto di Madrid, col tempo appena sufficiente per prepararmi bene e così incominciare la giornata scolastica coi miei allievi, con la miglior energia possibile. Uso il trasporto pubblico, autobus o treno, per recarmi al lavoro. Mi viene comodo perché normalmente trovo un posto a sedere quando salgo e quasi non mi alzo fino a destinazione. Così approfitto anche di questo tempo. Di solito esco da casa alle sette e venti, in modo da essere sulla banchina del treno alle sette e trenta. Anche l’11 è stato così, ma mi sono trattenuto appena pochi secondi in più. Ho corso lungo il sottopassaggio per non perdere il treno, ma sono arrivato che le porte si erano appena chiuse. Il mio dito, premendo il bottone d’apertura, non è riuscito a spalancare la porta del vagone numero quattro. Il treno partiva ed io non ero dentro. Che rabbia! Ora dovevo aspettare dieci minuti per poi arrivare in fretta e furia al lavoro. Il treno seguente si è fermato sul binario ma non ha proseguito. Ci hanno informato attraverso gli altoparlanti che la linea era interrotta. Mi sono avvicinato al conduttore del treno ed è stato lui a dirmi che c’era stato un attentato alla stazione di Atocha, ma non ha saputo dirmi che erano stati perpetrati attentati in altri tre punti della stessa linea ferroviaria. Io non avevo altro in mente che arrivare al lavoro, e ho preso anche il treno della linea parallela che porta a Chamartín, l’altra stazione finale di Madrid. La mia irritazione andava aumentando perché decisamente sarei arrivato tardi al lavoro. Ma durante il percorso fino a Chamartín il mio atteggiamento si è capovolto. Durante il viaggio ho telefonato a casa per chiedere a mia madre se era vero quel che avevo sentito sull’attentato. Lei ha acceso il televisore proprio nel momento in cui veniva data l’informazione che era esploso un treno ad Atocha. Che pietà! Comunque, non era un ostacolo per arrivare al lavoro. Un minuto dopo mi telefona lei: c’erano state altre due esplosioni. Ora incomincio ad essere preoccupato. Pochi minuti dopo mi chiama ancora, e questa volta mi parla di una bomba a Santa Eugenia. Mio Dio, sono le stazioni che percorro ogni giorno! Mi dice anche che si sospetta che le bombe procedono dalle stazioni di Guadalajara, Alcalà o Torrejòn. Ed io ero proprio su un treno che era partito da Torrejòn! Sul vagone, la gente ha incominciato a domandarmi cosa c’era, ed ho raccontato loro quel che era accaduto. All’improvviso, tanti cellulari hanno suonato in tutto il vagone, la paura cresceva di momento in momento e tutti eravamo desiderosi di arrivare finalmente a Chamartín. A questo punto ero diventato più che nervoso, ma cercavo di non dimostrarlo per non trasmettere agli altri la mia paura. Siamo arrivati a destinazione alle otto e tre minuti, e subito dopo hanno chiuso la stazione. Stavamo tutti chiedendoci il perché, quando abbiamo sentito dagli altoparlanti quel che stava accadendo. E la reazione è stata immediata: tutti a scappare di corsa per paura che anche in quel treno ci fosse una bomba. Spaventoso. Ma lo choc più forte per me è venuto dopo. La tv cominciava a trasmettere le immagini dell’accaduto. Non potevo credere a quel che vedevo. Era del tutto irreale, inimmaginabile, senza senso. Era accaduta una strage spietata, un massacro di una crudeltà sproporzionata, un atto terroristico contro la condizione umana. Non poteva essere vero… E poi, i particolari dell’attentato. E allora il mondo mi è caduto addosso. L’ultimo dei treni colpiti, quello che era esploso a Santa Eugenia, era proprio quello che non ero riuscito a prendere, e per di più la bomba era nel vagone numero quattro, proprio quello la cui porta non si era voluta aprire, mezz’ora prima, quando avevo premuto il bottone. Sono scoppiato a piangere. L’intera mia vita è passata di colpo per la mia mente, come nelle scene di un film: momenti preziosi, altri molto duri, altri meravigliosi. E soprattutto i progetti futuri. Tutta una vita che potevo aver perso quella stessa mattina. Non capivo niente, non volevo saper niente, pensavo solo alle persone che erano dentro il treno, i miei compagni di viaggio di ogni giorno che sicuramente non avrei visto più. Cercavo d’immaginare me stesso dentro il vagone: cosa avrei fatto, come avrei reagito, come sarei adesso…? Tante domande alle quali non trovavo risposte. Sono solo riuscito ad afferrarmi ad una certezza: quel treno, il treno delle sette e trenta dell’11 marzo, quel vagone numero quattro, non erano per me; il treno della morte non mi era stato destinato, non c’era un posto per me; Dio non ha voluto che io fossi lì dentro, ha voluto che continuassi il mio viaggio sul treno della vita. Questo pensiero mi ha molto tranquillizzato, ma non riuscivo a cacciare la sensazione di debolezza e fragilità dell’essere umano, perché mai sappiamo dove e quando sarà la nostra fine. Ho subito cercato di telefonare a famigliari e amici per dir loro che stavo bene, di non preoccuparsi. Ma le linee telefoniche erano sovraccariche, e i cellulari non funzionavano. Non riuscivo a contattare nessuno. Dovevo arrivare al più presto alla scuola. È stato il tragitto fino a scuola più lungo della mia vita. Ogni minuto pareva eterno. Ogni secondo in più che passava era un secondo in meno di vita per quanti erano preoccupati per me. Arrivando al lavoro, verso dieci e trenta, mi sono stretto in un commosso abbraccio con una delle suore, ansiosa di vedermi apparire alla porta. Subito dopo sono venuti altri compagni, impauriti perché coscienti che il treno di Santa Eugenia era quello che io prendevo ogni giorno. Sono rimasto seduto nella portineria del centro quasi quindici minuti, cer- cando di rilassarmi. Mi hanno suggerito di non far lezione, ma non ho voluto, era mio dovere essere coi miei allievi, nonostante avessi molto male al cuore. Mi hanno detto che durante la preghiera di quella mattina tutti, professori e allievi, avevano pregato per me. E qui mi sono commosso. Era come se tante preghiere mi avessero protetto da un dolore non desiderato. Ma non potevo rimanere nel passato, o nella possibilità di non esser più vivo. Dovevo fissarmi nel momento presente. E ho ringraziato Dio perché ero lì e potevo rivedere i miei bambini, quelli che giorno dopo giorno mi danno la forza di vivere la mia professione fino in fondo. Sono entrato in aula e di nuovo mi sono commosso. In ogni volto di quei bambini di nove anni ho visto il volto di Gesù che mi diceva: ti voglio bene. Ancora mi emoziono al ricordarlo. I bambini si sono fusi in un forte applauso e non sono riuscito a trattenere le lacrime. Non ce la facevo più! E il cellulare non smetteva di suonare… L’ho spento, come ogni giorno, e ho cercato di amare come sapevo e potevo le persone che erano nel mio presente. E ho fatto lezione. Veramente Dio prepara le cose molto bene. Casualmente stamane mi tocca proporre il tema di religione: la parabola del figlio prodigo… Com’è difficile parlare di perdono in certi momenti! Ma dovevo uscire da me stesso, testimoniare. Anche se provavo un forte rancore contro le persone che avevano consumato tale crudeltà quella mattina, non potevo incitare all’odio, dovevo incitare al perdono e alla pace. Testimoniare che ero pronto a perdonare quelli che ci fanno del male. Quel giorno di scuola non lo dimenticherò mai. Anche il ritorno a casa è stato strano. Ero come in un altro mondo, fuori della realtà, distante, apatico, pieno di dolore e paura contenuta. Arrivando a casa, mi aspettava tutta la famiglia: genitori, nonni, zii, cugini… Non potevo dimostrare loro che stavo male, ma era così. Tutta la settimana è stata un processo di adattamento per stabilizzarmi nella realtà che mi tocca vivere. Ogni ricordo si attualizza e non è facile prendere ogni giorno lo stesso treno, alla stessa ora, nello stesso posto dove l’ho perso quel giorno, immaginando quel che è successo quattro stazioni più avanti. Ad ogni fermata faccio una preghiera per le vittime e ringrazio Dio perché mi ha ridonato la vita. È stata l’esperienza più forte della mia vita. Ho visto la morte passarmi molto vicina, e ciò mi ha convinto ancora di più che, vivendo la volontà di Dio ogni momento, aiuto a costruire un mondo migliore attorno a me.

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