La sfida più grande

Quale relazione deve intrecciarsi tra una vocazione e la comunità da cui è nata? Come far sì che il “noi” non soffochi l’ “io”? è quanto spiega Luigino Bruni in “Elogio dell’auto-sovversione. La fioritura umana nelle Organizzazioni a Movente Ideale” (Città Nuova, 2017)

La sfida più impegnativa in tutte le esperienze comunitarie è riuscire a dar vita a un “noi” che non finisca per mangiare gli “io” delle singole persone che lo hanno generato. I nomi collettivi sono buoni e dalla parte della vita solo se sono accompagnati e preceduti dai nomi e dai pronomi personali. I “noi” senza gli “io” sono all’origine di tutte le patologie comunitarie e dei regimi illiberali, anche quando si presentano come promessa di liberazione e si rive­stono di una veste salvifica. Le comunità servono le loro persone solo se riconoscono di essere seconde, consentendo che la prima persona singolare pre­ceda quella plurale. Quando quest’ordine naturale dei plurali e dei singolari viene invertito o negato, i cammini personali si guastano, le vocazioni sfiori­scono, la comunità tradisce se stessa.

Il destino di ogni vocazione è la generazione di nuova vita, la liberazione di schiavi dai faraoni, ol­tre il mare. Ma ogni vocazione è anche una grande storia d’amore. Il suo buon sviluppo nel tempo sta allora nella possibilità concreta di poter tenere as­sieme la chiamata alla liberazione di oppressi con la delicata gestione delle emozioni narcisistiche pre­senti in ogni innamoramento. In principio c’è l’e­ros. La voce ci incontra, ci chiama e ci seduce, e ci ritroviamo dentro il sogno dei sogni. Tutto attorno canta ed è illuminato da un nuovo sole dentro, più vero e luminoso di quello che splende fuori. Si ac­cendono tutti i sentimenti, si muove e commuove il cuore, la voce che ci chiama si sente e si tocca come il pane, come le persone. È una esperienza sublime, indispensabile per far iniziare ogni volo alto sotto il sole. E chi l’ha conosciuta continua a cercarla per tutta la vita. Ma perché la vocazione prosegua bene il suo sviluppo, è necessaria la ma­turazione dell’eros in philia (amicizia). Quando ciò accade, la prima chiamata diventa una esperienza di compagnia e di fraternità. Si esce dal registro unico e prevalente del sentimento e della passione e si co­struiscono comunità. Non è detto che i sentimenti e l’innamoramento scompaiano, ma non sono più né l’unico né il primo linguaggio.

[…]

 

Nelle vocazioni che non si guastano lungo la strada, la philia, nata dalla maturazione dell’eros, fiorisce a sua volta in agape. È questo il tempo del­la maturità piena, quando i fiori della primavera diventano i frutti dell’estate. La comunità che ha custodito la prima vocazione e l’ha fatta diventare un’avventura collettiva condivisa e feconda diven­ta ora il trampolino di lancio verso orizzonti nuovi dello spirito. La comunità svolge il suo mestiere di pedagogo buono e introduce finalmente la persona alla vita adulta. Si continua a vivere con e per gli altri compagni di viaggio, ma con una libertà e una verità tutte nuove. La liberazione promessa dalla prima chiamata qui raggiunge un primo traguardo: si è liberati dalla stessa comunità che ci era stata do­nata. Si capisce che si è stati mandati per una comu­nità più grande della propria: quella di tutti. Si sco­pre che la famiglia che ci ha accolto non era l’ultima parola, ma solo la penultima.

Da “Elogio dell’auto-sovversione” di Luigino Bruni (Città Nuova, 2017)

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