La scuola di Dalwal

Indosso il shalwar qamise, l’abito pakistano, e con i miei amici imbocchiamo l’unica autostrada del paese, che da Rawalpindi conduce a Lahore. Tre corsie, asfalto levigato alla perfezione. Un capolavoro dei tecnici coreani, terminato appena tre anni fa. Frequenti le stazioni di servizio, efficienti come nelle più moderne autostrade occidentali. Ma hanno qualcosa in più: la moschea, una in ogni stazione di servizio, dove fermarsi a pregare nelle ore stabilite. Sulla corsia di emergenza scorgo un poliziotto. Benché sia l’ora della preghiera, non può lasciare il suo posto di guardia: ha steso il suo tappetino sull’asfalto e si prostra in direzione della Mecca. Il paesaggio è brullo: alture di terra frastagliate, terreni pietrosi, scheletrici arbusti. Lasciata l’autostrada attraversiamo alcuni villaggi terrosi. Qua e là si vedono case di fango, tende di profughi afgani e qualche accampamento di nomadi. In poco tempo siamo a Dalwal, non più di un’ora e mezzo da Rawalpindi. Le basse colline stentate che si ergono all’intorno contrastano con i campi ben coltivati. Ci avventuriamo nel villaggio. Forse Nazareth o Betlemme dovevano essere così. Stradine strette, con in mezzo lo scolo delle acque, delimitate da muri contigui che si aprono su piccoli cortili misteriosi. Asinelli stracarichi, uomini con grandi pesi sulle spalle, donne velate con le taniche dell’acqua sulla testa. Poi la via principale, appena più grande delle altre, con il bazar: minuscoli negozi e botteghe artigianali del fabbro, del sarto, del falegname… I bambini che tornano da scuola con la tavoletta di legno su cui è stata passata una mano di bianco. Le bambine che si velano al nostro passaggio. Gli uomini che salutano con effusione dando la mano. Le donne che si ritirano o si voltano dall’altra parte per non farsi vedere. Una dozzina le moschee, incastrate tra le abitazioni. Dalwal era un villaggio ricco nell’antichità, per un tipo di commercio molto particolare: vicino vi sono le miniere di sale, tutt’ora sfruttate (sono discesi in otto ordini di gallerie per una lunghezza complessiva di 140 chilometri). Da lì partivano le carovane di cammelli per portare il sale nelle città vicine. In questo villaggio, che oggi conta 8 mila abitanti concentrati in pochis- simo spazio e nascosti nel silenzio, ha inizio la nostra storia. La vicenda della scuola di Dalwal Nell’Ottocento qui c’era soltanto una scuola elementare. Il desiderio dei genitori era quello di offrire ai propri bambini la possibilità di continuare gli studi. Così nel 1894 uno di loro presentò alle autorità locali una petizione, firmata da tutti gli abitanti del villaggio, con la quale si chiedeva l’ampliamento della scuola e l’istituzione di corsi di studio superiore. La risposta fu negativa. Successivamente fu un’intera delegazione del villaggio a portare la stessa richiesta al vescovo di Lahore. Un mese dopo, due missionari cappuccini belgi, da lui inviati, visitarono il posto. Poco dopo iniziarono i lavori di costruzione della scuola. Per poter accogliere anche bambini e ragazzi dei villaggi vicini, si costruirono dormitori e cucine, così come una piccola chiesa, la casa parrocchiale, i campi da gioco. Grazie all’impegno e alla dedizione dei padri, nei primi 25 anni 473 studenti (cifra notevole per quei tempi) superarono gli esami di ammissione all’università con risultati brillanti. Molti di questi occuperanno posti di responsabilità nell’esercizio delle funzioni pubbliche. Non indifferente il sottile lavoro dei padri nel costruire rapporti di fiducia con le persone del luogo. Uno di loro, padre Silvester, è ancora oggi ricordato dagli anziani come padre e guida del villaggio, anche nel comporre le controversie fra famiglie e vicini di casa. L’esperienza di Dalwal è in effetti rimasta unica nella storia del Pakistan. In nessun villaggio musulmano c’è mai stata una scuola cattolica. Le scuole gestite dalla chiesa, oltre che nelle grandi città, si trovano soltanto nei villaggi cristiani. Sì, perché nel Pakistan musulmano ci sono villaggi costituiti esclusivamente da cattolici, che provengono per la maggior parte dalle classi umili. I missionari, sia per elevare il loro tenore di vita, sia per consentire la loro sopravvivenza in un ambiente a stragrande maggioranza musulmano, pensarono di acquistare grandi estensioni di terreno per poi distribuirle ai cristiani che riunivano in villaggi costruiti appositamente per loro. Negli anni Settanta la scuola atipica di Dalwal venne nazionalizzata, e il terreno confiscato dal governo. Situata in una regione rurale dove nessun insegnante desiderava essere relegato, la scuola progressivamente decadde dal punto di vista accademico e la stessa proprietà si ridusse in uno stato di totale abbandono. Il numero degli studenti scese visibilmente e negli ultimi anni si avviava addirittura all’estinzione. Quando alla fine del ’90 il governo restituì alle istituzioni cattoliche le scuole precedentemente confiscate, a Dalwal i pochi bambini rimasti seguivano le lezioni sotto gli alberi: le aule non erano più agibili. Mons. Lobo, vescovo della diocesi di Rawalpindi-Islamabad, offrì la scuola di Daiwal al Movimento dei focolari, perché le ridonasse vita e, sfruttando le possibilità che l’ampia proprietà offriva, desse il via a un centro di spiritualità orientato in particolare al dialogo interreligioso. La notizia fu accolta calorosamente da tutti gli abitanti del villaggio. Perché offrire la scuola proprio al Movimento dei focolari, che non è nato per questo scopo? “In questo Istituto – spiega il vescovo Lobo – c’erano studenti sikh, indù, cristiani e musulmani che studiavano e giocavano insieme in un’atmosfera di pace e di grande armonia; qui si lavorava alla formazione del carattere e alla costruzione integrale della personalità. Gli studenti sikh pensavano che qui si vivesse proprio secondo gli insegnamenti dei loro libri sacri, i cristiani ritenevano che qui si riceveva l’educazione cristiana e biblica, gli indù erano sicuri che si applicassero gli insegnamenti del Bawaqida, e allo stesso modo i musulmani che si spendessero le giornate seguendo i dettami del Corano”. Oggi, dopo l’11 settembre, la situazione è molto più difficile di allora, ma il vescovo pensa che il focolare abbia un dono particolare per costruire l’unità tra le religioni. Un nuovo inizio Pur in condizioni logistiche, igieniche e sociali di estrema precarietà, la scuola ricomincia a funzionare nell’aprile del 2000, con l’insegnamento materno e i circa sessanta studenti della gestione precedente, che devono completare i loro corsi. Sono mesi di rodaggio non facile. Dove trovare le persone qualificate e disposte a trasferirsi in questo villaggio dalle condizioni esterne così scoraggianti?Marietta Spiteri, focolarina maltese, è la persona giusta, molto, molto vivace: sprizza vitalità da tutti i pori. Prende con sé alcune giovani insegnanti del movimento e per cinque giorni la settimana vive a Dalwal. Una maestra musulmana del villaggio si occupa dell’insegnamento dell’Islam. Mariella spiega la filosofia che guida i primi passi di questi nuovi inizi: “Cerchiamo di impostare i rapporti sul rispetto e l’amore reciproco. Dopo i tragici fatti di settembre, per esempio, ogni lunedì, durante l’adunanza del mattino, si tira un dado, il “dado dell’amore”, sulle cui facce sono scritti alcuni motti che indicano le esigenze dell’amore cristiano (“amare per primi”, “amare tutti”…). Le insegnanti nelle diverse classi spiegano il motto che è venuto fuori e noi, insieme con i bambini cerchiamo di metterlo in pratica durante la settimana. Quasi senza accorgersene questi bambini hanno cominciato a rispettarsi di più, a volersi più bene e a portare quest’amore anche a casa loro”. Mi intrattengo con gli operai, i guardiani, le maestre, i bambini. È tutto un cantiere di lavoro per restaurare, ammodernare, adattare, mentre continuano le lezioni. Andrew, focolarino e ingegnere anch’egli maltese (ma sembra un pakistano), dirige i lavori con passione ed entusiasmo. La scuola è racchiusa da un alto muro di cinta. È un insieme di costruzioni in pietra, ben allineate. L’architettura è solenne. I portici e le arcate di porte e finestre le conferiscono una sobria eleganza. Avevo visto video e foto, ma stento a riconoscere il luogo: è molto più spazioso, arieggiato e verde di quanto immaginassi. Il parco racchiude più alberi di quante ve ne siano in tutta la zona circostante. Mi perdo in mezzo ai bambini che stanno giocando nel momento dell’intervallo. Sono 112 i bambini e 2 le bambine (un fatto nuovo questo; nella precedente scuola c’erano soltanto ragazzi). Due di loro sono cristiani, gli altri tutti musulmani. Ai primi che mi si avvicinano, superando la timidezza, chiedo di raccontami alcune delle loro piccole storie, per vedere come vivono il “dado dell’amore”. Emman dell’asilo, cinque anni: “Ho finito il mio compito e volevo andare subito dalla maestra per farlo vedere ma c’era già una fila di altri bambini davanti a me. Mi veniva voglia di superare tutti ed andare io per primo ma poi mi sono ricordato che bisogna amare tutti e sono rimasto fermo dove ero ad aspettare il mio turno. Ero molto felice”. Umar della classe prima: “Stavo con i miei amici al bazar quando ad un certo punto i miei compagni cominciano a prendere in giro il fruttivendolo. Io stavo dicendo loro di tacere quando questo signore prende un bastone e comincia a bastonarmi sull’orecchio. Volevo difendermi e dire che non sono stato io a prenderlo in giro. Quel giorno stavamo vivendo il punto: “amare i nostri nemici”, allora non ho detto niente e 1’ho amato”. Si tessono rapporti nuovi anche con i genitori e con la gente del villaggio. Mariella mi racconta che quando c’è stato l’attentato nella chiesa di Bahawalpur, dove sono morti tanti cristiani, si sono vissuti momenti di tensione. “Un giorno uno dei capi del villaggio viene nel mio ufficio per parlarmi in via confidenziale: “Sono venuto a dirle che i nostri uomini del villaggio fanno la ronda ogni notte e controllano tutta la vostra proprietà. Con noi siete al sicuro, non dovete avere paura di niente perché vogliamo proteggervi””. Uno dei momenti più belli di quest’anno sembra sia stata la preparazione della festa musulmana di Eid e di quella del Natale. “Con gli studenti e le insegnanti – racconta ancora Mariella -, abbiamo preparato un programma adatto a tutti dove ognuno potesse riscoprire il vero significato sia di Eidul- Fitr che di Natale. Abbiamo cerca- to, ad esempio, poesie e canti che mostrassero il vero senso del digiuno: l’amore, la misericordia verso gli altri. Abbiamo preparato noi stesse i biglietti augurali di Eid per ogni famiglia, con la foto dei bambini e della loro insegnante. In cambio ne abbiamo ricevuti tanti con gli auguri di Buon Natale: ci hanno commosso, perché sappiamo che nei villaggi vicini non esiste nessuna cartoleria e che per comprare cartoline con qualche segno cristiano hanno dovuto fare due o tre ore di viaggio verso le città più grandi. Piccoli segni di una grande attenzione”. La scuola è in pieno sviluppo, tornerà presto all’antico splendore. Ma Dalwal avrà molto di più di una scuola. L’intero complesso vuole assumere le caratteristiche di una cittadella, di una città scuola, dove cristiani e musulmani insieme possano offrire un bozzetto di umanità capace di convivere in armonia. I responsabili dei Focolari in Pakistan mi raccontano sogni e progetti e con loro mi pare di vedere già la cittadella con famiglie, centri di formazione, piccole aziende… Solo due anni fa pochi conoscevano l’esistenza di Dalwal. Oggi sembra un po’ come una piccola Betlemme: un luogo umile e nascosto dove Gesù vuole nuovamente irradiare l’amore. Il seme e l’acqua Curato dall’architetto Carlo Fumagalli, il progetto di Dalwal avrà come oggetto i tre ettari della proprietà. Per quanto riguarda la scuola, verranno innanzitutto restaurati i quattro edifici in pietra a un solo piano costruiti all’inizio del secolo scorso. Le nuove costruzioni, invece, prevedono nuovi e adeguati servizi, quattro alloggi per gli insegnanti e il personale.Verrà inoltre riabilitato il campo sportivo di cricket, sport nazionale in Pakistan. Per quanto riguarda poi il Centro si spiritualità e dialogo interreligioso, si prevede la costruzione di una reception, di una sala di accoglienza, di una caffetteria, di una sala di incontri da 250 posti, servizi igienici, cucina e ristorante. Altri edifici saranno costruiti in seguito, mentre sono già stati avviati i principali lavori di urbanizzazione. “Il progetto – come spiega l’architetto Fumagalli – si ispira all’architettura e all’urbanistica islamica, con particolare riferimento al giardino, inteso come anticipazione del paradiso coranico. Due assi tra loro perpendicolari suddividono idealmente il terreno in quattro zone (il chahar bagh): il primo asse passa al centro delle tombe dei padri fondatori, l’altro lo interseca a poca distanza: saranno evidenziati, come suggerisce la tipologia classica, da corsi d’acqua, sfruttata poi per l’irrigazione. All’intersezione dei due assi, una vasca, a diretto contatto con le sepolture. Le tombe, il seme che muore, l’acqua, la vita che risorge sono il segno della continuità tra il passato e il presente. Dove poi i due assi ortogonali incontrano le murature perimetrali, verranno aperte quattro porte, segno dell’apertura alla società. Gli edifici, per inserirsi nell’ambiente circostante, avranno al massimo due livelli”.

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