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Cultura > Itinerari

La prima volta che Dürer valicò le Alpi

di Oreste Paliotti

Lo scorso 2024 il Museo del Buonconsiglio a Trento ha ospitato nella mostra “Dürer e gli altri. Rinascimenti in riva all’Adige” alcune celebri vedute realizzate dal maestro tedesco durante il suo viaggio in Trentino alla fine del XV secolo. Soffermiamoci su quel viaggio, decisivo per l’evoluzione artistica del giovane Albrecht

“Veduta di Trento” (1495).

Aveva 23 anni Albrecht nel 1494, due anni dopo l’arrivo di Colombo in America, ed era già considerato un pittore e incisore a bulino di alto livello, ben oltre la sua Norimberga. Ma ciò non bastava alla sua ambizione: per eccellere come artista, aveva bisogno di approfondire le leggi della prospettiva, le proporzioni della figura umana, il colore. Per questo meditava di fare un viaggio, il suo primo in Italia, per ammirare a Venezia le opere di alcuni protagonisti del Rinascimento italiano, quei maestri veneti a lui noti soltanto per fama e per qualche copia a stampa.

“Autoritratto” (1500).

Gli fornì l’occasione l’epidemia scoppiata nella tarda estate di quell’anno nel fiorente centro bavarese dov’era nato. Affrettò quindi la partenza per fuggire il contagio, ma anche per accompagnarsi ad un commerciante esperto dei luoghi che, a differenza di lui, parlava bene l’italiano. Aveva un cruccio: lasciava sola in casa Agnes, sua sposa da appena un anno, ma con che cuore poteva coinvolgerla nelle fatiche e nelle incognite di un viaggio che fra andata e ritorno avrebbe richiesto diversi mesi?

Preparò il suo bagaglio con l’indispensabile e in previsione di un inverno da affrontare si fornì di un mantello fin sotto al ginocchio orlato di pelliccia, di un cappellaccio con risvolti della stessa, di calzoni e scarponi pesanti. Con cura ancora maggiore allestì la cassetta con tutto l’occorrente per realizzare, nei luoghi attraversati, schizzi e acquerelli.

Era l’inizio d’autunno quando, lasciata alle spalle la libera città di Norimberga, Albrecht e il suo compagno imboccarono il collegamento più diretto col Sud Tirolo: quella via imperiale che ripeteva quasi fedelmente il tracciato di epoca romana della via Claudia Augusta. Già al passo del Brennero, messo piede nella valle dell’Isarco, il giovane artista abituato ai dintorni piani e uniformi della sua città provò la sensazione di essere entrato in un altro mondo, con intorno torreggianti montagne rivestite fin quasi in cima di cupe abetaie, mentre dietro spuntavano altre catene montuose candide per le nevi eterne.

Col tempo favorevole, Venezia era raggiungibile in 4 o 5 giorni dal porto fluviale di Bronzòlo, utilizzando degli zatteroni; senonché l’Adige esondato a Salorno rendeva problematiche le comunicazioni fino a Trento, specie nel tratto più pericoloso a San Michele, dove il suo affluente Noce scaricava detriti senza fine. Così per raggiungere la Val di Cembra, donde imbarcati a Garda e percorso un tratto di Po avrebbero avuto accesso alla laguna della Serenissima, i due viandanti furono costretti a prendere un percorso alternativo molto più lungo: quello che, distaccandosi dalla via imperiale e dal fondovalle ormai impraticabile s’inerpicava sugli altipiani.

Non nuovo a quelle piene periodiche, il commerciante ritenne inutile lamentarsi oltre misura. Dal canto suo Albrecht pareva affascinato dalla conformazione geologica delle montagne, dove profonde spaccature prodotte da chissà quale cataclisma si alternavano a strane rupi frastagliate e isolate ricoperte di muschio, a stratificazioni simili alle pagine di un gigantesco codice.

E poi castelli dall’aspetto arcigno appollaiati come uccelli rapaci su spuntoni di roccia a difesa del fondovalle (in uno di quei manieri, a Segonzano, Albrecht sarebbe stato per una notte ospite del capitano del borgo), chiesette dai campanili aguzzi come punte di frecce, romitori aggrappati a costoni e dirupi… Più giù, al limitare dei boschi, là dove iniziavano le dolci ondulazioni dei pascoli, assieme a masi dai comignoli fumiganti comparivano qua e là contadini affaccendati a preparare le nuove colture, contadine con gerle traboccanti di frasche, pastori con greggi e, nei tratti palustri e acquatici, traghettatori al lavoro. Agli incroci dei sentieri, capitelli con immagini sacre ornate di fiori freschi.

Sarebbero serviti gli occhi di Argo ad Albrecht per assorbire la meravigliosa tavolozza dei colori autunnali e scenari del genere, ideali per rappresentazioni di figure allegoriche o santi penitenti; doveva invece affidarsi alla memoria visiva e agli appunti con i quali accompagnava i suoi schizzi: un roccione di forma particolare sul quale stava in bilico un rudere di castello, una cava di pietra, una macina, un mulino ad acqua… Intanto, stimolato da tanta varietà e quasi immemore dei progetti futuri, dava poca soddisfazione al più loquace compagno, che finì presto per rassegnarsi alle sue distratte risposte.

Venezia, dove le loro strade si separarono, folgorò Albrecht con la sua smagliante bellezza, opera dell’uomo e al tempo stesso della natura: quel mare da cui la città lagunare emergeva come Venere alla sua nascita. La vivacità e il cosmopolitismo dei veneziani, la cordialità che gli veniva manifestata, l’abbondanza di opere d’arte e l’alta considerazione di cui godevano in Italia gli artisti lo conquistarono. Purtroppo, nei circa 6 mesi in cui vi si trattenne, vendendo stampe ai membri della comunità tedesca, non riuscì a contattare nessuno dei grandi artisti veneti, ma si estasiò ugualmente davanti ai capolavori di Giorgione, dei fratelli Bellini, del Mantegna, e a certe Madonne soavi e gentili così diverse da quelle più rigide austere di area nordica, fiamminga.

Nella primavera del 1495, il ritorno lungo gli stessi percorsi dell’andata. Stavolta da solo, libero quindi di riflettere, di attardarsi dove e quando voleva per riempire di schizzi il suo album. Ora toccava a lui farsi intendere col suo stentato italiano: fortunato quando, imbattendosi in un interprete di lingua tedesca, riceveva indicazioni più dettagliate sul percorso, su una locanda dove pernottare o prendere a nolo una cavalcatura per i tratti più impervi.

Col nuovo bagaglio di conoscenze apprese a Venezia, stimolato poi dal risveglio primaverile, Albrecht avvertiva l’urgenza di indagare le palpitanti essenze vitali di quella natura che nell’arte del suo tempo era ridotta a solo sfondo dell’uomo (non esisteva ancora, nella cultura dell’epoca, l’idea, il concetto di paesaggio rappresentato realisticamente e senza filtri intellettuali): si proponeva così di ridare alla veduta naturale la sua verità, convinto che «l’arte è nascosta nella natura; chi può tirarla fuori di lì, costui la possiede».

Frutto di queste riflessioni, spicca tra i suoi acquerelli alpini una famosa veduta parziale di Trento adagiata lungo un’ansa dell’Adige. A differenza delle sue precedenti rappresentazioni di città, asciutte e didascaliche nella resa dei dati topografici, qui si avverte un altro respiro spaziale in una diffusa luminosità, grazie all’espediente di abbassare il profilo delle montagne emergenti dalla foschia per allargare lo spazio del cielo; memore delle leggi prospettiche e dei valori coloristici appresi a Venezia, qui l’artista aveva reso nella sua verità la città vescovile. Per questo nuovo sguardo, non più “gotico”, Albrecht Dürer è considerato un precursore del paesaggio moderno.

Non ebbe discendenti: i suoi “figli” furono le opere che dopo quel primo viaggio a Venezia (cui seguì un secondo tra il 1505 e il 1506) esportarono al di là delle Alpi la ventata rinnovatrice del Rinascimento italiano.

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