La persona è il reportage

Articolo

L’attenzione per la persona, prima di tutto. L’umiltà di calarsi in una realtà completamente diversa. La convinzione di non dover essere euro-centrici, cioè di non descrivere ogni cultura altra secondo parametri europei. La ricetta di Ryszard Kapus´cin´ski è semplice. Polacco, nato nell’attuale Bielorussia, per decenni inviato per l’agenzia di stampa Pap, ha unito alla ricerca delle news una costante attenzione per le persone incontrate, tanto da arrivare a scrivere dei reportage corali, come ama definirli. E poi i libri, che hanno avuto successo in tutto il mondo, da Il negus fino all’ultimo In viaggio con Erodoto, che ripercorre le vicende dei suoi viaggi intervallata dagli scritti di quel grande osservatore, etnologo e giornalista ante litteram che fu lo storico greco. Passando per Shah-in-shah, sull’Iran che passava dallo scià agli ayatollah, Imperium, un reportage sulla Russia dopo il crollo del comunismo, e soprattutto Lapidarium, un viaggio tra i frammenti della storia, nelle cui pagine forse più di ogni altro volume emerge l’attenzione per la persona. Incontro Kapus´cin´ski a Napoli, dove riceve il Premio Elsa Morante per il giornalismo internazionale. Ma la speranza di non pochi è che sia assegnato proprio a lui il Nobel per la letteratura, dato che è da tempo uno dei candidati. Ma Kapuscinski non sembra curarsene più di tanto. A lui, si vede, interessano più le cose che succedono intorno a lui, anche le più piccole. A 73 anni, dopo innumerevoli viaggi, rimane viva la stessa vivacità intellettuale di quando era un ragazzo e voleva partire, scoprire l’estero. Soprattutto, resta viva la sua curiosità. E lo si nota: mentre parliamo, non riesce mai a tenere lo sguardo fisso. È attento a ogni parola, a ogni tuo gesto, ma contemporaneamente si guarda intorno, quasi a scatti, per cogliere ogni dettaglio di quello che succede. Sorride, e spesso. Sembra abbia il potere di stupirsi di ogni piccola cosa, e di cercare di capirlo. D’altronde, come ha scritto lui stesso, il cinico non è adatto a fare questo mestiere. Mi ricordo che una volta ad una trasmissione radio ha detto che tutta la sua attenzione di giornalista era stata rivolta alla persona. Perché la persona e non la notizia? È la strada per fare un reportage? Secondo me il reportage è un’opera comune, un’opera che non scrive soltanto il giornalista, ma che è fatta dalle persone che ho incontrato sulla mia strada. La loro storia, la loro vita è un elemento del reportage. Quindi il reportage è scritto dalle persone che incontro. Da dove le è venuta la voglia di raccontare, visto che lei ha iniziato come inviato d’agenzia, e solo in un secondo momento ha cominciato a scrivere libri? Il momento in cui ho incontrato le persone, le storie sulla mia strada, ho capito che le news, la notizia, sono una forma molto povera per raccontare fatti e avvenimenti. Ho avuto bisogno di raccontare queste cose in un modo molto più ricco, molto più colorato, meno schematico. Raccontare le storie tramite un libro è molto più interessante, perché la notizia è molto più schematica, molto burocratica, mentre il libro è una forma che mi permette di sviluppare tutto quello che ho visto e che ho sentito. Nel suo ultimo libro, In viaggio con Erodoto, racconta il suo primo viaggio da inviato in Cina, senza sapere nulla del paese. Prima di intraprendere i viaggi successivi, come si è regolato? Si è preparato o ha preferito partire dalle persone, dal racconto? Nel nostro mestiere è difficile prepararsi per il viaggio. Non c’è tempo.Ma io comunque ho sempre cercato di prepararmi per ogni viaggio, leggere della cultura, della politica, della storia del paese che avrei incontrato. Ma, a prescindere dal fatto che volevo sapere e sapere del paese in cui mi stavo recando, studiare mi serviva anche per non scrivere cose già scritte. Oggigiorno ci sono tantissimi libri, tantissime cose scritte sullo stesso paese, infinite informazioni. Quindi studiare serve a non ripetersi e a non ripetere le cose già dette. La debolezza della letteratura dei viaggiatori, dei giovani soprattutto, è proprio che loro si recano in un paese, ammirano tutto ciò che hanno visto sulla loro strada e lo scrivono.Ma questo è già stato scritto da tanti, non aggiungono nulla di nuovo a quello che è già stato scritto. Questa è una debolezza di scrittura. In quale paese le è stato più difficile calarsi nella cultura e capirla? È difficile dire quale cultura sia più o meno difficile, perché tutte sono difficili. È complesso entrare in una cultura sconosciuta soprattutto allorché ci si imbatte in una nazionalità, una razionalità, e soprattutto una razza diverse. Perché, in quel caso, vieni subito marcato, e si capisce che sei diverso dagli altri. Oltrepassare questi ostacoli è cosa molto difficile. E difficile è perciò guadagnarsi la fiducia di queste persone. Per questo è un mestiere molto duro, molto faticoso. E come si fa a guadagnare la fiducia delle persone? È molto difficile definire come si possa guadagnare la fiducia, perché è qualcosa di molto personale. Ci sono persone molto aperte, che rispettano gli altri, non superbe. Se lo sei, vieni escluso. C’è una specie di eliminazione naturale: restano solo quelli che rispettano gli altri. C’è qualcuno che l’ha più colpita durante i suoi viaggi? Migliaia di persone! È difficile citarne una in particolare. È mezzo secolo che faccio questo mestiere, e mi è difficile raccontare di una sola persona. Ha viaggiato perché lo voleva o perché la sua agenzia la inviava? Non mi hanno mai costretto ad andare da qualche parte. Volevo sempre partire io, andare fuori. Andavo perché lo volevo. È una grande responsabilità quella di chi vuole andar fuori. Quando decidi di partire, prendi su di te questo carico. Si può paragonare il giornalista ad un pilota di aerei militari: è l’unico soldato che può rifiutare l’ordine, nel momento in cui questo può significare il rischio della vita. Anche per il reporter è così: si può rifiutare un viaggio, perché comporta pericolo. È così che ho scritto Shah-in-Shah, che parla della rivoluzione di Khomeini in Iran. Uno dei miei colleghi non si sentiva di andarci, e così ci sono andato io. Il problema di solito è più grave per le troupe televisive, quando uno vuole partire e l’altro no.Mentre quando si tratta di servizi scritti o radiofonici, è molto facile sostituire una persona che non se la sente di partire. Mi sembra che talvolta si tenda a descrivere tutte le culture come se fossero un unicum, sottolineandone i punti in comune piuttosto che le differenze. Invece io credo che la differenza sia un valore. Cosa ne pensa? Il valore sta proprio nella diversità. Ma spesso nei reportage per descrivere le culture diverse si usano solo le parole che conosciamo. Questo è dovuto al ritmo frenetico che ti impone il lavoro. La differenza con i reportage sono i libri, come faccio io. Quando hai più tempo per scrivere, puoi usare le parole giuste per una certa cultura. La cosa più importante è di non fare eurocentrismo, di non paragonare tutto con la cultura europea. La cosa più bella è sottolineare la differenza, e dare ad essa un alto valore. Riflettendo sul suo ultimo libro, mi veniva da pensare che al tempo di Erodoto c’era meno paura degli altri popoli rispetto ad ora. La globalizzazione è diventata, insomma, un problema, proprio nel momento in cui è più facile entrare in contatto. Non è una questione di paura, ma di tecnologia. Nei tempi passati, quando la gente si incontrava aveva una relazione con la persona. Tutto si svolgeva in modo assai personale: io vedevo te, la tua faccia, sentivo il tuo timbro di voce e capivo il modo in cui ti comportavi. Invece oggi tutto questo è stato sostituito dalle email, da Internet, dal telefono cellulare. La parola è stata sostituita dal simbolo. Noi però abbiamo la lingua, una delle cose che più ci caratterizzano. Io stesso non concedo mai interviste via telefono o email, non le accetto proprio. Per me è importante vedere la persona di fronte a me. Qual è la sfida del giornalismo per raccontare la cultura diversa? Mi viene difficile dare consigli, non lo faccio mai. L’unica cosa che posso suggerire è quella di trattare il nostro mestiere in maniera molto seria. Dovremmo avere un’idea della linea che vogliamo seguire ed esserle fedeli. Tanti giornalisti ne escono sconfitti, perché sono sottopagati e questo è un mestiere che toglie tanto tempo. Molti perciò scelgono un’altra strada. Quando si sceglie la professione di reporter, solo in un secondo momento arrivano le soddisfazioni. È importante essere coscienti di ciò. Quando ci si aspettano i soldi immediatamente, si rischia di finire corrotti, professionalmente parlando. Io stesso, in un certo periodo, ho vissuto povero; ma mi sono sempre rifiutato di scrivere cose che non sentivo per guadagnare più soldi.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons