La pace in tempo di guerra

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Le ultime guerre, dall’11 settembre in poi, hanno riportato d’attualità la presunta motivazione religiosa dei conflitti, visto che contendenti tentavano di tirare Dio dalla propria parte. E più o meno la metà fra le guerre dimenticate – 35 secondo la Caritas internazionale, da 29 a 49 secondo altri osservatori – avrebbero a pretesto anche motivi religiosi. Siamo andati alla ricerca di alcuni tra i tanti semi di pace presenti in contesti di guerra, grazie alle testimonianze delle comunità locali dei Focolari. Se un proverbio cinese ricorda che “fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”, in queste pagine cerchiamo di amplificare questi sotterranei brusii di pace. Pace che – ricorda la Pacem in terris – si costruisce in primo luogo nei cuori degli uomini. La pace, scriveva Giovanni XXIII in quella profetica pagina, è fondata su quattro pilastri: amore, giustizia, libertà e verità. Un pensiero che è stato ripreso dai successori di papa Roncalli, soprattutto dall’attuale pontefice, che non perde occasione per sottolineare come la pace abbia a che fare con l’essere stesso di Dio, al di là dei confini del cristianesimo. Per questo motivo la vera religione, spiega Giovanni Paolo II, non è e non può essere motivo di conflitto. Colombia, la dittatura del narcotraffico Nel paese lo squilibrio fra ricchi e poveri è alla base della attuale situazione di violenza, in cui si mescolano guerriglia, forze paramilitari, narcotraffico, gruppi delinquenziali. In Colombia non è stato ancora risolto il problema della proprietà della terra, e negli ultimi anni alla questione agraria si è aggiunto il problema del narcotraffico, che raggiunge almeno il 25 per cento delle esportazioni colombiane e i cui guadagni vengono utilizzati per aumentare il conflitto del paese. In questo quadro, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, le Farc, contano circa di 15 mila guerriglieri. Mentre l’Esercito di liberazione nazionale, l’Eln, circa 5 mila. Senza contare i gruppi paramilitari sorti per combattere la guerriglia. È una vera guerra, se si pensa che questi conflitti sono responsabili di milioni di profughi e di decine di migliaia di omicidi all’anno. E il processo di pace è fermo. È quindi evidente: la soluzione del conflitto colombiano passa attraverso una diffusione della cultura della legalità. In questa prospettiva, la comunità locale dei Focolari è impegnata sia in un lavoro di promozione di tale cultura, sia nel sostegno delle vittime del conflitto. Come José, un sacerdote che lavora come parroco nel sud della Colombia, in una impervia zona pericolosa. Racconta: “La guerriglia mi pareva molto lontana dal mio servizio, anche se sapevo che alcuni dei combattenti apprezzavano il mio lavoro per i più poveri. Un giorno dei guerriglieri si sono impossessati della mia auto perché erano inseguiti. Dopo qualche giorno, mi hanno fatto riavere la macchina, anche se quasi distrutta, per via di un incidente” Volevano pagarmi la riparazione, ma non ho accettato, per non scendere a compromessi. E allora essi stessi me l’hanno riparata”. Continua don José: “Più tardi, in un altro paesino, la nuova “comandante” dei guerriglieri mi ha visto: “Ah, il prete: mi hanno parlato bene di lei”, ha commentato. Ho risposto: “Cerchiamo di vivere il vangelo ed amare tutti: guerriglieri, soldati, paramilitari” tutti”. E lei: “È un’illusione. La vera rivoluzione la facciamo noi”. Ed io: “Siamo pochi e poveri, ma Dio è con noi, vediamo chi arriva prima a fare la rivoluzione””. Ma non sempre va bene. Un altro sacerdote del movimento è stato ucciso in un attentato che, a quanto sembra, è stato procurato dai paramilitari, mentre attraversava un fiume per visitare le popolazioni più povere della zona. E come non parlare di padre Nelson Gòmez, della diocesi di Armenia, impegnato in particolare nella cura dei giovani affetti da Aids? È stato ucciso da due giovani ladri entrati nella canonica. Volevano uccidere suo fratello sposato, quand’egli si è fatto avanti, ed è così morto al suo posto. Il giorno prima aveva promosso una veglia per la pace in Iraq. A questo proposito, fa impressione costatare come, in un paese in guerra, si preghi per un’altra nazione dove non c’è la pace, in una sorta di “globalizzazione della preghiera”. Parla un giovane: “Mio fratello minore stava per sposarsi. Ma l’elicottero che pilotava è stato colpito dal fuoco della guerriglia, ed è morto. Appena ricevuta la tragica notizia, ho capito che quel dolore potevo offrirlo per le vittime della guerra in Iraq. Poi, a casa, sono stato accanto a mia madre, disperata. Seguendo l’invito del papa, abbiamo pregato il rosario per gli iracheni. Alle esequie mia madre, finalmente rinfrancata, ha esclamato: “Sembrava una festa, non un funerale””. Ci sono poi iniziative sociali più visibili, come il “Centro social unidad” nel quartiere della Merced, nella periferia sud di Bogotà, sorto attorno a fabbriche di mattoni, in cui lavorano molti bambini, in un’estrema povertà. A Medellín, una vecchia casa serve di alloggio per un gruppo di una ventina di famiglie che, a causa del conflitto colombiano, hanno dovuto abbandonare le loro terre per sopravvivere. E così via. L’azione del movimento si svolge nel contesto di una nazione cattolica, in cui la chiesa è considerata come l’istituzione più credibile ed affidabile, anche perché ha pagato duramente il suo tributo di sangue. In un paese dove la libertà di culto è scritta persino nella costituzione, la diversità religiosa non costituisce un problema per la pace; anzi, le azioni ecumeniche ed interreligiose in favore della fraternità sono numerose, promosse in particolare dai movimenti cattolici. Macedonia, il fuoco sotto la cenere La guerra a noi più vicina, è quella che per anni ha insanguinato i Balcani. Se i cannoni non sparano più, se Milosevic è in carcere, non per questo l’emergenza è finita, in particolare in Kosovo e Macedonia. Quest’ultima, con appena due milioni di abitanti, è patria di numerose culture e religioni: gli ortodossi sono il 60 per cento della popolazione, un 30 per cento abbondante è composto da musulmani di origine albanese e un piccolo “resto” da cattolici, l’1 per cento. Le conseguenze della recente guerra sono ancora evidenti nella fragilità della convivenza tra etnie. Mato e Marika Mikulec abitano a Skopje, e fanno parte della comunità dei Focolari, che riflette nella sua composizione il mosaico etnico della regione. “Prima della guerra – raccontano -, pur vivendo nella stessa città, ognuno era obbligato a condurre la propria vita. Era veramente strano che un cristiano entrasse in un quartiere musulmano, e viceversa. Ma qualcosa si è mosso con lo choc del conflitto. Le persone della comunità hanno cominciato a conoscersi meglio. Così non si ha più timore dell’altro, nella consapevolezza che anche l’altro ha gli stessi tuoi problemi”” Borka, ad esempio, è ortodossa: ha fatto di tutto per trovare lavoro a Delfina, una giovane musulmana. E Zorica, pure lei ortodossa, quando si reca a Skopje, non dorme presso conoscenti cristiani, ma si reca dalla sua amica Fet, albanese musulmana. Continua Mato Mikulec: “I problemi politici ci sono, e gravi. La situazione può esplodere da un momento all’altro. Ma in questi frangenti siamo spinti non tanto a sottolineare i problemi, quanto quello che invece unisce. È paradossale, ma così”. Azir Selmani, insegnante albanesemusulmano a Skopje, aveva vissuto l’inizio della guerra in modo drammatico. La sua scuola era diventata un centro di primo aiuto: “Ho visto gente che veniva da noi per accogliere nelle proprie abitazioni anche dieci persone alla volta. Sapevo che tanti di loro, essendo genitori dei miei alunni, erano poveri ed avevano abitazioni molto piccole. E aprivano le porte della propria casa senza guardare alla religione, né alla nazionalità dei profughi”. Continua Azir: “Tra i profughi arrivati, mi sono accorto che vi erano anche due famiglie cristiane. Mi sono preoccupato per loro, e ho proposto che venissero a casa mia, dove già si era rifugiata mia madre e aspettavamo numerosi parenti bloccati ancora alla frontiera”. Un ultimo episodio: la famiglia di Aziz e Gzime Shehu da trent’anni viveva in un quartiere di Skopje, unica famiglia musulmana tra gli ortodossi. Intrattenevano rapporti cordiali con i vicini, ma dopo la guerra sfiducia e paura li avevano spinti a decidere di trasferirsi, e vendere la casa. All’arrivo dei primi acquirenti, una dozzina di vicini di casa hanno bussato alla loro porta dicendo: “Se vendete la casa per vivere in condizioni migliori, ne avete il diritto; ma se lo fate per la paura, non permetteremo mai vi succeda qualcosa”. Per rispondere alla dichiarazione di guerra in Iraq, le persone della comunità dei Focolari hanno deciso di intensificare i rapporti con persone di etnia e religione diversa. Sono stati rivolti inviti nelle case, nelle moschee, nelle chiese. Ognuno ha pregato Dio per la pace. “E nel cuore di ciascuno – conferma Mato Mikulec – cresceva un impensabile ottimismo e una certezza: siamo pochi, ma attraverso il nostro amore reciproco Dio stesso può essere presente anche nelle città dove regna l’odio, la divisione tra le nazioni e le religioni”. Si è continuato a vivere semplicemente. Come Aziz, musulmano, che si era trovato in ospedale quando si è presentata l’urgenza di operare un cristiano. Ma non c’era sangue. Si è fatto avanti lui, e il suo gruppo sanguigno si è dimostrato proprio quello necessario. Filippine, Mindanao: tra un attentato e l’altro Anche nelle Filippine una violenta guerriglia sta insanguinando il sud dell’arcipelago, in particolare l’isola di Mindanao. Il conflitto risale alla fine degli anni Ottanta, quando la rivalità tra le comunità cristiane e musulmane si accentuò, anche per l’azione del New People’s Army (Npa), un gruppo armato. Sotto il presidente Ramos furono firmati trattati con il National Democratic Front comunista e con il Moro National Liberation Front (Mnlf), il principale gruppo armato musulmano di Mindanao. Con Joseph Estrada, si decise invece di ricorrere a una soluzione militare, con appoggi esterni, per via della posizione strategica di Mindanao e delle sue ricchezze naturali. Il risultato è stato un incremento notevole di battaglie, rapimenti e attentati dinamitardi, con molte vittime tra i civili. La guerriglia di Mindanao ricorda per tanti versi quella del Vietnam, e si teme che la conflittualità duri a lungo, come nel sud-est asiatico. L’attuale amministrazione non si decide tra la soluzione pacifica e quella militare, mentre le vittime crescono, e il conflitto si allarga ad altre isole, come Basilan e Sulu. Abu Sayaff, che si dice legato ad Al Qaeda – anche se non esistono al proposito prove concrete -, è certamente un grave problema di ordine pubblico. Una coppia della comunità del movimento è stata rapita proprio dal gruppo di Abu Sayaff. Dopo alcune settimane di prigionia, è stata liberata. Alla domanda se sia ancora possibile parlare di fraternità in tale contesto, la moglie non esista a rispondere: “Sì, è possibile e auspicabile. Con tanti musulmani i rapporti sono profondi e intensi. Anche nell’Islam abbiamo trovato una religione tollerante che ha nella pace il valore supremo. Con loro si può ragionare anche in termini di lavoro comune per la fraternità universale”. Per testimoniare una tale convinzione, i giovani del movimento presenti a Mindanao hanno raccolto giocattoli e materiali di scuola per i bambini del centri di evacuazione di Pikit, una delle comunità più duramente colpite a Cotabato. Aminah, una giovane musulmana, ha coordinato il tutto, selezionando una cinquantina di ragazzi che ora vengono sostenuti con borse di studio. Ma la testimonianza più toccante viene dalla città di Davao, nell’isola di Mindanao, dove anche recentemente vi sono stati gravissimi attentati alla bomba di cui peraltro non si è mai capita l’origine. Commenta un giovane della comunità locale: “Non posso credere che si mettano bombe in una città come la nostra, la più pacata e progressista di Mindanao, dove musulmani e cristiani convivono pacificamente”. E una donna della stessa città: “Noi non abbiamo paura, perché Dio ci protegge e protegge pure i musulmani, anche se ora tanti cristiani dicono che il bombardamento è stato provocato da loro, e viceversa”. La comunità della città ha immediatamente promosso, dopo i primi attentati, una riunione interreligiosa di preghiera, offrendo anche dei contributi finanziari per organizzare una riunione di pace delle gioventù musulmane. Un uomo si è invece iscritto ad un corso di arabo per capire meglio i suoi fratelli musulmani. E tutti i cristiani della comunità hanno deciso di sorridere ogni volta che incrociano un musulmano (e viceversa), per manifestare sentimenti di amicizia. Un imprenditore ha assunto dei giovani musulmani come tirocinanti nel suo ufficio. Non è stato facile, perché alcuni dipendenti vi si opponevano. Ma poco alla volta, vedendo la loro indole pacifica, anche i restii hanno accettato la loro presenza. Finché nell’ufficio ci fu una allerta alla bomba: il padre di uno dei giovani musulmani ha chiamato il proprietario e l’ha assicurato delle preghiere degli amici musulmani per la ditta e per tutti i dipendenti. E il giorno dopo si è dato da fare per migliorare la sicurezza dello stabile. È una logica dei piccoli passi; come è accaduto a quella giovane donna che ha preso parte a una discussione nell’autobus, in cui si criticavano i musulmani per difenderli, facendo cambiare opinione a un certo numero di persone. E poi inviti a casa, a riunioni di preghiera, a vivere le rispettive Scritture. Ad uno di questi incontri, avevano partecipato cinque musulmani, tra cui un giovane leader: il loro entusiasmo all’udire l’idea della fratellanza universale la dice lunga sul desiderio di pace. La pace nei cuori La pace, ovviamente, è un affare politico. Ma non solo. È in primo luogo un affare di popolo. Un affare di ragione, ma anche di cuore. Le testimonianze raccolte confermano come anche la guerra più incancrenita può cominciare a sgretolarsi allorché semi di pace fanno breccia nella ferrea logica dell’odio. Abbiamo scritto di Skopije, di Davao, di Bogotà. Avremmo potuto invece raccontare qualcosa di Rawalpindi, di Bujumbura, di Pristina, con gli stessi toni e lo stesso tipo di testimonianze. Lo faremo.

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