La nuova battaglia del lavoro

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Ametà febbraio Italia e Gran Bretagna hanno sottoscritto un documento comune riguardante la riforma del mercato del lavoro a livello europeo, e lo hanno inviato alla Spagna, presidente di turno dell’Unione, in vista del prossimo vertice di Barcellona. Niente di strano che due paesi si accordino e propongano una riflessione comune, anziché avanzare proposte separate. La particolarità risiede nel fatto che ad essere d’accordo sono il premier inglese Tony Blair, inventore e massimo esponente del nuovo laburismo inglese, e Silvio Berlusconi, capo del governo di centrodestra italiano. E la materia è tutt’altro che secondaria: si tratta delle indicazioni per introdurre una normativa comune a tutta l’Unione europea in merito a contratti e orari di lavoro, formazione continua dei lavoratori, efficienza delle imprese e sicurezza dei lavoratori. L’accordo ha spiazzato la sinistra italiana, che fino a poco tempo fa additava in Blair un modello da seguire, e sembra accreditare agli occhi dell’opinione pubblica la politica economica del governo italiano, molto meno esposta, ora, all’accusa di essere appiattita sugli interessi degli industriali: se anche Blair è d’accordo – questo il messaggio – allora Berlusconi sta facendo politica, e non, semplicemente, come spesso si sente dire, “i suoi interessi di bottega”. Tutto questo avviene in un contesto italiano reso incandescente – tra le altre cose – dalla proposta, daparte del governo, di una delega in materia di mercato del lavoro: il governo chiede al parlamento l’autorizzazione ad emanare decreti legislativi che introdurranno nuovi tipi di contratti di lavoro, che modificheranno il ruolo delle organizzazioni di tutela e di rappresentanza, che affronteranno i problemi del lavoro sommerso, dell’efficienza delle imprese, del collocamento e della formazione dei lavoratori, della sicurezza sociale. Eppure, tra tutti gli argomenti toccati dalla delega, l’attenzione si è concentrata su quella che il ministro del Welfare Roberto Maroni ha defi- nito una “sperimentazione temporanea e parziale”, che introduce delle deroghe all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Lo Statuto è legge dello stato: figlia dell'”autunno caldo ” 1969, conquistata a prezzo di lotte lunghe e difficili, costituisce, in gran parte, il riconoscimento di diritti essenziali dei lavoratori. E per “essenziali” intendiamo diritti della persona che lavora, cioè diritti umani nel campo dell’attività economica. L’articolo 18, in particolare, qualifica lo Statuto, perché stabilisce che il lavoratore non possa venire licenziato senza “giusta causa o giustificato motivo”, nel qual caso il giudice reintegra il lavoratore nel posto di lavoro e stabilisce un risarcimento. È chiara la radice costituzionale di questo articolo di legge, là dove la Costituzione riconosce il “diritto al lavoro ” e impone alla repubblica di prodigarsi per rendere effettivo tale diritto. È un principio di civiltà, in base al quale la repubblica italiana ritiene di non poter rimanere indifferente davanti al funzionamento del sistema economico, non può lasciare che le conseguenze negative dei rapporti di forza nel mondo del lavoro si scatenino senza che lo stato intervenga a tutela della dignità della persona. Questo è il contenuto ideale dell’art. 18, un contenuto che va salvaguardato. Il problema, semmai, è di capire il modo migliore per farlo, tenendo conto che la fase storica in cui viviamo, dal punto di vista economico, è molto cambiata rispetto a quella che vide l’approvazione dello Statuto. Le sentenze che hanno reintegrato lavoratori nel loro posto, in applicazione dell’art. 18, infatti, sono state, nell’anno scorso, appena 93: il che spiega come, agli effetti pratici, l’incidenza dell’articolo nella vita delle aziende e dei lavoratori sia minima. Ci si chiede, a questo punto, perché mai il governo abbia sollevato il problema, dato che l’unico risultato è quello di ledere un principio. Le interviste che riportiamo in questo servizio sono concordi nella risposta. Città nuova si schierò contro l’abolizione dell’articolo quanto la proposta fu avanzata da un referendum radicale, e non ha cambiato opinione. Ma lo scontro sull’art. 18 è importante perché ha messo sotto gli occhi dell’opinione pubblica, con particolare chiarezza, alcuni problemi. Anzitutto, la profonda diversità ideologica tra i sindacati. Il governo ha offerto di tenere la palla ferma per due mesi, in modo che il tavolo di confronto aperto tra sindacati e industriali abbia il tempo di esaminare tutti i problemi sul tappeto, e tenti di predisporre delle proposte concordate, che il governo si è impegnato ad accogliere. Il testo della proposta di delega e la relazione che lo accompagna sono documenti seri, che possono costituire una base di partenza per il confronto. Ma mentre Cisl e Uil, pur essendo indisponibili a discutere sull’art. 18, hanno accettato di partecipare al dialogo, la Cgil si è rifiutata e prepara lo sciopero generale. Sia nel sindacato che tra gli industriali ci sono dunque posizioni ideologiche che creano una contrapposizione inutile ed espongono il paese a forti rischi: anzitutto quello che l’opinione pubblica, avvertendo che è in gioco un principio impor- tante da difendere, approvi forme di lotta sbagliate, dando forza alle posizioni sindacali più obsolete. Bisognerebbe, infatti, salvare il principio, ma estendendo la protezione a tutti i tipi di lavoratori, anche a quelli con contratti a termine, a part-time, a collaborazione coordinata e continuativa. Ed è chiaro che le forme di protezione non possono essere quelle attuali, ma bisogna inventare qualcosa di nuovo, e lo si può fare solo dialogando. La mossa della Cgil, che costringe a schierarsi pro o contro, rafforza gli orientamenti ideologici, e può portare ad un successo politico di parte perché ricompatta la sinistra: ma la ricompatta attorno a obiettivi e a metodi che la sinistra europea – Blair insegna – ha abbandonato. Ed ecco un altro rischio: quello che una sinistra – sindacale e politica – che spera di vincere arretrando, tradisca la propria funzione storica di difesa ed emancipazione dei deboli, perché non sa più vedere le nuove figure che i deboli – lavoratori e non – hanno assunto. Nella società di oggi è fortemente aumentata l’incertezza sociale. C’è il rischio che l’idea stessa di “professione”, intesa anche nel senso di una “vocazione” al lavoro, venga perduta, con grave danno per le persone e per la società. Non si vuole negare che il lavoratore debba avere una certa adattabilità, e che sia aiutato a condurre una formazione continua, o a tornare a formarsi in certi periodi della sua vita: il pericolo sta nella frammentazione, nell’insicurezza, nel vivere rapporti di lavoro saltuari per decenni: in questa situazione, come si può pensare che una persona – il giovane specialmente – sia in grado di impostare la propria esistenza secondo un progetto, di assumere impegni definitivi quali li impone la costruzione di una famiglia? Le conseguenze negative, anche sul piano morale, della società dell’incertezza, sono pesanti. Non è solo al sindacato, allora, che si deve chiedere maggiore disponibilità ad un coerente aggiornamento. La situazione chiede al governo che si distingua in maniera più netta e decisa dalla posizione degli industriali, rinunciando a quei cedimenti ideologici – vedi articolo 18 – che lo portano a schierarsi da una parte; che assuma fino in fondo e più convintamente il proprio ruolo politico di interesse generale, guidando l’intera società a costruire quella sicurezza senza la quale si ottengono profitti, ma non sviluppo. Distinguere i compiti Il provvedimento del governo riflette l’esigenza, da parte delle imprese, di una maggiore facilità di assunzione, ma anche, corrispettivamente, l’esigenza di una maggiore facilità di liberarsi di persone che ritengono inadeguate: che cosa ne pensa? “”La possibilità di assumere una persona con un contratto a termine, per poterla valutare e poi, eventualmente, assumerla in maniera definitiva, è un aiuto alle imprese. Bisogna, cioè, lasciare alle aziende la possibilità di scegliere: con ciò si premia chi ha capacità e voglia di lavorare. Mi sembra che questa sia una forma di flessibilità utile, che porta effettivamente all’aumento dei posti di lavoro. “D’altra parte, la maggior parte dei licenziamenti riguarda lavoratori che non hanno i requisiti necessari – di conoscenze, di preparazione – per inserirsi nei nuovi processi produttivi. È una situazione difficile, difficile anche da dire, perché spesso sono persone con famiglie a carico, con figli grandi che devono finire gli studi. “Siamo in presenza di due esigenze, che spesso si combattono nella mente degli imprenditori. Da una parte c’è quella delle aziende che devono dar lavoro a chi ha la qualifica per farlo; dall’altra c’è il dramma del lavoratore che perde il posto senza possibilità di trovarne un altro, perché tutto il settore produttivo nel quale è impiegato si sta modificando”. Come intervenire in questi casi, soprattutto per prevenirli? “Bisogna forse distinguere meglio i compiti: sono le aziende che devono reggere il peso di lavoratori non più produttivi, o è la società che deve intervenire? L’incertezza sociale deve essere superata imponendo la continuità del posto di lavoro – con grave danno per le imprese e per il sistema nel suo insieme – o creando le condizioni perché i lavoratori possano aggiornarsi e adeguarsi alle nuove esigenze? “Io sono per la seconda soluzione: è la società che deve dare continuità e garanzie alla dignità delle persone; ma in questo compito anche le imprese possono fare una parte importante, non lasciando il lavoratore a sé stesso, ma favorendo – in collaborazione con le istituzioni – le occasioni di formazione e aggiornamento professionale: è meglio formare, che licenziare”. Come valuta l’aver messo in discussione l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? “Mi sembra, più che altro, una posizione ideologica, che ha in realtà poche conseguenze nella pratica delle aziende, e che nasce dalla volontà di ridimensionare il sindacato. Non la condivido, ma si dovrebbe tener conto che quest’ultimo, in anni recenti ha tentato di assicurarsi per legge un potere che si riduceva assieme al numero dei suoi iscritti, ad esempio imponendo la sindacalizzazione delle cooperative, incurante che in esse tutti sono soci. Si è preteso che le cooperative, anche quelle sociali, pagassero i propri soci e dipendenti secondo i parametri ufficiali, senza tener conto della natura particolare di questo tipo di imprese. “È un atteggiamento che tende a dare potere al sindacato, senza tener conto che un gruppo di lavoratori che creano una cooperativa sceglie liberamente di guadagnare poco, nei primi anni, per poter sviluppare l’azienda. Questo vale anche per molte piccole imprese che, se devono appli- care quanto previsto dai contratti nazionali di lavoro – sostenibili solo dalle grandi aziende -, non riescono non dico a crescere, ma neppure a nascere. Le grandi aziende continuano a perdere posti di lavoro; sono le altre aziende che li creano”. Ritiene che le nuove forme contrattuali che il governo ha in animo di introdurre possano servire a mettere ordine nelle infinite espressioni del lavoro nero? “La percentuale ufficiale della disoccupazione in Italia non fotografa la realtà: c’è molto lavoro sommerso che potrebbe emergere se fosse possibile regolamentarlo non con il tradizionale contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ma attraverso le nuove forme contrattuali che esistono anche in altri paesi e che il governo vuole introdurre in Italia. Sono rapporti di lavoro che già esistono nei fatti, e che potrebbero venire regolarizzati. Queste forme di flessibilità – purché sempre rispettino la dignità del lavoratore – sono positive “. Un principio di civiltà Signor Tassano, come valuta la proposta di sospendere la validità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? “Un ladro, prima di essere dichiarato tale, deve passare attraverso un giudizio. Un lavoratore, se il padrone lo licenzia senza motivo, ha diritto, più del ladro, di sapere perché viene licenziato. Questo principio, che i lavoratori hanno conquistato combattendo duramente, va mantenuto assolutamente: in questo, Cgil, Cisl e Uil sono unanimi”. Sono divise, invece, sul tema dei rapporti con i datori di lavoro. “Penso che la Cgil abbia dichiarato unilateralmente lo sciopero generale per salvaguardare una certa unità interna. Ma in questo modo ha messo sotto i piedi il valore fondamentale dell’unità dei lavoratori, che è più grande dello sciopero generale. “Il segretario della Cisl, Pezzotta, va sostenuto, proprio perché ha accettato di dialogare: rifiutare il dialogo è uno sbaglio. Il governo ha congelato per due mesi la legge, per lasciare il tempo alle parti sociali di confrontarsi e di sviluppare proposte. L’articolo 18 non deveessere toccato, ma su tutto il resto si può dialogare, cercando di coinvolgere anche la Cgil. “È stato un errore lo stesso aprire il discorso sull’art. 18, perché è un principio di civiltà. L’obiettivo vero di Confindustria è indebolire il sindacato, che attraverso l’art. 18, dagli anni Settanta, si è potuto rafforzare”. Ma il sindacato si è già indebolito negli ultimi anni: perché, allora insistere sull’articolo 18? “Per umiliare il sindacato davanti alla gente. Così si provoca uno scontro muro contro muro, che porterà conseguenze negative per tutti e impedirà di cogliere altre opportunità. “La strada da percorrere, infatti, è completamente diversa. Perché, ad esempio, non cominciamo a raccordarci partendo dalle molte esperienze positive che già esistono? Penso a tutto ciò che sta facendo il terzo settore, alle esperienze che riguardano i contratti part-time, il ruolo della formazione e della famiglia: mettiamoci insieme per portare al legislatore delle proposte unitarie, che aiutino la crescita economica, la creazione di posti di lavoro e rispettino le diverse esigenze lavorative delle persone. “Ricordo il modo con il quale si definì la legge 381 del 1991, che regola le cooperative sociali, particolarmente impegnate nei servizi alla persona e nell’introduzione al lavoro di chi è colpito in varie forme dal disagio. Prima di arrivare a quella legge, c’è stato un grande lavoro delle associazioni, della Caritas, ecc., in dialogo con i politici, che ha prodotto una buona legge. È la dimostrazione che i problemi si possono risolvere, a partire dalle esperienze”.

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