La maestra Silvia non aveva la matita rossa

Come insegnava Chiara Lubich? Episodi inediti raccontati da alcuni suoi ex allievi e da una collega.
Chiara Lubich

Si conoscono molti aspetti della vita di Chiara Lubich, soprattutto dal 1943 in poi, quando ha lasciato la sua famiglia per iniziare una strada nuova conosciuta ormai nei più svariati ambiti e angoli del pianeta. Poco, invece, si sa degli anni precedenti il 1943. Un convegno internazionale di pedagogia, organizzato da “Educazione unità” del Movimento dei focolari, ci ha portato a incontrare persone che avevano conosciuto Chiara quando era… Silvia, la maestra Silvia Lubich.

L’ambiente è tutto trentino. Abbiamo cominciato da Castello in Val di Sole dove quattro ex allieve – Caterina, Carmela, Dolores ed Edda – ci aspettano impazienti per parlare della loro maestra, demolendo così la fama di trentine riservate. Parlano contemporaneamente, si infiammano, rivivono l’anno scolastico 1938-1939 come fosse appena terminato.

Edda: «Andavamo in campagna a pascolare gli animali, facevamo la legna nei boschi, avevamo tanto lavoro da fare».

Dolores: «Poi andavamo a scuola, era una scuola piccola, un’unica aula con cinque classi di 40-42 bambini…».

Più voci: «E aven imparà tant da Chiara. Aven imparà anche l’unità da Chiara. L’educazione, la fraternità. A volerse ben».

Dolores: «Nella classe ghe n’era qualche d’uno scadente…».

Carmela: «… e finché non arrivava come gli altri, la maestra ripeteva sempre… aspettava tutti! Non come gli altri maestri che vanno avanti con le lezioni e se lo sai, lo sai, o altrimenti fai a meno!».

Dolores: «L’ultima settimana che è rimasta ha continuato a parlarci, a fare raccomandazioni: di volerci bene, di essere unite, di aiutare specialmente gli anziani; lei andava spesso a trovarli. E quando è andata via siamo andati tutti assieme ad accompagnarla alla corriera».

Più voci: «Piangevamo perché partiva, sapevamo che non ritornava l’anno dopo. Anche la maestra era commossa, ma non si è fatta vedere piangere».

Dolores: «Dopo che la maestra Silvia è partita da Castello, abbiamo trattenuto dei rapporti ancora con delle letterine». Ne legge una: «Trento, 2 gennaio 1942. Carissima Dolores, è la tua maestra di una volta che ti scrive, quella maestra che poco fa ti è venuta a trovare.  Ti ricordi ancora quello che ti ho raccontato e ti ho raccomandato? (…) Vorrei sapere anzitutto se siete riuscite ad ottenere la S. Comunione quotidiana, ossia tutti i giorni. Leggerai questa mia letterina alle tue compagne e me le saluterai tanto. Dirai a Domenica che la ricordo sempre. Dirai a Oliva e Carmela che so che se vogliono sono buone e me l’hanno dimostrato ancora il giorno che sono venuta fra voi. Dirai a Caterina che le voglio tanto bene perché so che se vuole è molto buona e molto brava…».

Dolores s’interrompe per dire che Caterina e Carmela sono lì presenti: «Che sono poi queste due». Prosegue: «Vogliatevi bene e pensate come potete fare a far diventare buone anche le altre vostre compagne. Ricordatevi di Gesù che aspetta sempre voi piccole su nella chiesetta (…). Vi mando un bel bacio a tutte, la vostra maestra, Silvia Lubich».

 

Dal 1940 al ’43 Silvia insegnò a Cognola, vicino a Trento, in un istituto di bambini orfani. Piera Folgheraiter: «Ho incontrato Chiara all’Opera Serafica come collega. Avevo un problema tecnico – diciamo – e lei lo ha risolto, perché aveva l’esperienza, perché era così, generosa in tutto e aiutava proprio col cuore. Non avevo un alfabeto illustrato, che si usava allora nella prima classe, e me l’ha fatto Silvia, i 10 numeri e le 21 lettere dell’alfabeto».

Piera continua a parlare mentre sfoglia le cartelle con le lettere e le immagini dell’alfabetiere. «Guarda la mano, è proprio la sua. Era come una sorella che mi sapeva consigliare, che mi sapeva aiutare quando ne avevo bisogno e perciò non posso dimenticare quel “bello” che è stato con lei. La ricordo pazientissima, perché lassù (all’istituto dei bambini orfani, n.d.r.) bisognava avere pazienza. Dolce, sì, naturalmente, e proprio cara… più di così! Non mi ha mai dato insegnamenti, non mi ha mai detto: “Non fare così” o “non fare colà”, negli atteggiamenti miei. I cartelloni erano uno più bello dell’altro e i bambini godevano a vederli. Era generosa anche nel consegnarli, nel farli, capisci? Ho dato importanza veramente a queste cose, infatti li ho conservati, più di settant’anni».

 

Facciamo gli auguri alla carissima Piera che compirà a breve 90 anni e diamo appuntamento a padre Contardo Zeni, francescano cappuccino e anche lui ex allievo di Chiara, davanti all’Opera Serafica. «Ero nell’istituto degli orfani – inizia a raccontare –. Tra le maestre è arrivata la carissima Silvia Lubich, perché io la chiamo sempre “la mia maestra Silvia”. L’ho avuta per tre anni. Una grande maestra anche nel modo di parlare, di esporre, non era complicata per niente. Capiva il bisogno di far sentire a ciascuno che c’è una famiglia nella vita e che la sua famiglia non era solamente sua. Allora diverse volte diceva: “Andiamo a trovare il papà e la mamma” e ci portava in via Gocciadoro (dove era l’abitazione di Chiara, n.d.r.). Io la mamma l’avevo persa quando avevo sei anni. Lei è stata veramente una mamma per noi.

 

«Silvia aveva il suo carattere e dobbiamo dire che era un carattere forte, cioè non voleva cedere davanti ad un ostacolo, ad una contrarietà e perciò lasciar andare e prendere la scorciatoia, no! Forte fino in fondo, però nello stesso tempo riusciva a convincere le persone con la sua parola dolce.

«Perciò ho trovato in lei un’insegnante veramente buona anche nelle relazioni con le colleghe e con il personale di servizio. Non aveva un piedistallo, si metteva alla pari con gli altri per condividere quelle che erano le loro difficoltà.

«Lei quando interrogava faceva così: “Tu cosa pensi, cosa ne dici?”. Interrogava il ragazzo prima di dare lei stessa la risposta. In base alla risposta ricevuta, metteva la sua parola. Rispettava la personalità e anche – vorrei dire – il bambino.

«Alle volte ci sono professori che usano sempre la matita rossa: zac…zac…, Chiara no. Quando le si presentava un esercizio, sottolineava leggermente con: “Questa parola potrebbe avere altri significati, questa parola qui non è bene espressa”, in modo tale che non diventava un’ossessione tra l’alunno e la maestra, perché c’era il senso dell’amicizia, di famiglia. Questo è molto importante, perché – ho visto in altre occasioni – la correzione è fatta come voler dire: “Non vali niente, non sei niente”. Invece no, lei aveva su questo punto un tratto di grande rispetto della persona.

«Adesso lo capisco, ma a quel tempo non si riusciva a capire il perché del suo atteggiamento, e cioè che vedeva al di là del volto umano, vedeva la presenza di Dio nella persona. Sull’esempio suo, di Chiara, ho cercato di attuare tutto ciò nella mia vita e in relazione con gli altri, e questo mi porta veramente una grande soddisfazione. Io non finisco mai di dire grazie a Dio per avermi fatto incontrare una persona così eccezionale».

 

Abbiamo lasciato le risposte spontanee, di getto, perché questa è la storia di una maestra.

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