La “guerra fredda” ai tempi di Trump e Comey

L’ex direttore dell’Fbi durante la sua audizione al Congresso si è mostrato uomo delle istituzioni, mentre il presidente lo ha definito un “leaker”, cioè un rivelatore di informazioni segrete non autorizzate. Il Russiagate sta mostrando i limiti di un’amministrazione poco consapevole di leggi e ruoli

L’ingerenza di hacker russi nelle elezioni presidenziali, provata da un’indagine congiunta di Cia, Fbi e Nsa, le tre agenzie di intelligence statunitense, non ha solo riportato il gelo tra Russia e Usa, facendo rispolverare le pagine ingiallite della Guerra fredda, quando le due superpotenze minacciavano di far scoppiare un conflitto nucleare pur di mostrare l’una la supremazia sull’altra. Ora non ci sono solo potenziali ordigni, ma file informatici esplosivi. Fuga di documenti, alterazione di notizie, dimissioni di uomini vicini alla presidenza americana sembravano rimembranze d’archivio o sceneggiature cinematografiche, ma a leggere il rapporto sul voto statunitense si scopre che hackers e Wikileaks hanno preso la scena delle antiche spie e si palesa chiaramente che Donald Trump era il candidato gradito a Vladimir Putin.

 

Questo piano di attacco alla democrazia americana, sembra passato quasi in secondo piano rispetto al colpo di scena con cui il presidente degli Usa ha licenziato il direttore dell’Fbi, James Comey proprio per l’indagine sull’interferenza sovietica nelle elezioni. Il licenziamento ha in realtà aperto il sipario sul conflitto tra le istituzioni che governano il Paese e quelle deputate a proteggerlo e a garantire la salvaguardia dei diritti civili. Giovedì davanti al Congresso, James Comey ha risposto ad un fuoco di fila di domande sull’indagine che stava conducendo, ma il focus in realtà erano le ragioni del suo licenziamento e le modalità di approccio del presidente Trump  al braccio operativo del Dipartimento di giustizia, tale è l’Fbi. La nomina di Comey non è di natura politica, infatti l’incarico di direttore del Federal Bureau of Investigation dura dieci anni, oltre la durata presidenziale. Nominato da Obama, Comey è stato confermato da Trump e poi licenziato, perché sembra che l’uomo abbia garantito al presidente la “sua onestà” e non “la sua fedeltà” e che se sia rifiutato di “lasciar perdere” l’inchiesta su Michael Flyn, ex consigliere presidenziale coinvolto nel Russiagate.

 

Il direttore dell’Fbi è stato a contatto con il nuovo presidente ben 9 volte in appena 5 mesi, tra cene, colloqui privati e telefonate, mentre nella trascorsa amministrazione solo due volte aveva avuto rapporti con Obama. Comey ha dichiarato più volte che Trump “non ha ostacolato la giustizia” e non deve essere indagato, ma è la modalità di agire di un presidente quello che più preoccupa, sia gli avversari di sempre, ma anche i rappresentanti del suo stesso partito: il magnate non ha una profonda cultura delle istituzioni. E se durante l’audizione di Comey si è frenato con i tweet, ieri in conferenza stampa non ha resistito nel definirlo, “un bugiardo e un divulgatore non autorizzato di segreti”. Chissà come Trump ha definito se stesso quando lo scorso 16 maggio ha rivelato al ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov e all’ambasciatore russo negli Usa, Sergei Kislak. informazioni altamente riservate fornite dai servizi segreti israeliani e che non erano neppure state comunicate agli alleati.

 

È proprio difficile per l’imprenditore Trump entrare nell’idea che un governo non è un’azienda, dove la parola ultima spetta sempre a chi la guida, ma è parte di uno Stato con leggi, uffici giudiziari e investigativi autonomi rispetto al potere esecutivo. E questo Stato che assieme ad altri, deve lavorare ad un progetto comune di vita sull’unica Terra, senza doppio gioco. E invece il familismo, l’eccesso di sicurezza che sfiora l’arroganza, l’inesperienza governativa, “la natura della persona” (come ha detto Comey durante l’audizione) sono autentiche mine dalle conseguenze imprevedibili, dove il confine tra gestione del potere e abuso del potere diventano sempre più labili e mettono a rischio la permanenza alla Casa Bianca e non tanto per l’impeachment, la messa in stato d’accusa del presidente, ma per una rivolta interna nell’amministrazione e nella rappresentanza politica, logorate da una costante incertezza e da un’emotività incontrollabile.

 

Neppure il segretario di Stato Tillerson, ad esempio, è riuscito a persuadere Trump dell’inopportunità di isolare il Qatar, visto che lo stato della penisola arabica ospita un’enorme base americana. E non c’è riuscita neppure Wall Street, dove le quotazioni del dollaro sono scese anche per le sue ultime uscite impopolari e improduttive. La presidenza Trump è uno scossone della Storia per le istituzioni americane, ma spetterà a loro “proteggere gli Americani e difendere la Costituzione degli Stati Uniti”, come ha dichiarato James Comey a proposito della missione dell’Fbi, quella che non ha voluto tradire neppure di fronte al suo stesso presidente.

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