La città è perduta?

Cambiamenti epocali in corso. Quale futuro per le metropoli? Servono speranza e capacità di immaginazione.
Chicago

Le città sono ancora vive? Possiamo ancora parlare di città? Che futuro avranno? Il dibattito sulla città contemporanea si affanna intorno a queste domande. E nelle descrizioni e nei racconti, sia che l’osservazione venga condotta con intento nostalgico, sia che venga invece constatata con dichiarata neutralità e con qualche curiosità per quello che potrà diventare, prevale spesso la sensazione di una perdita. Una percezione – di qualcosa che è cambiato per sempre – che forse è comune anche all’esperienza di tutti noi. Perdita di che cosa?

 

Perdita di forma

 

Se il Novecento si è aperto con lo sgomento suscitato dalla crescita a dismisura della città, oggi nei primi anni del nuovo millennio sembra prevalere l’inquietudine che la dismisura, la perdita di forma, di proporzione, di una scala umana, sia il preludio di una definitiva dissoluzione della città. Il mutamento di scala è certamente epocale e merita attenzione critica. Stiamo certamente assistendo a una dispersione della città nei territori circostanti di straordinaria dimensione. In ogni parte del pianeta città fuori misura e fuori controllo crescono, ma il fenomeno è rilevante anche nel contesto europeo e italiano, dove non facciamo fatica a scorgere i lineamenti di una “città diffusa” che ovunque prolifera.

 

Un fenomeno di urbanizzazione che non genera più forme urbane riconoscibili lo ritroviamo in Veneto come in Lombardia, in Portogallo come a Taiwan, nelle aree costiere e nelle aree interne della Cina come in molte parti dell’America Latina. La città fuori scala ingloba spesso i suburbi e le favelas, la città dei ricchi e la città dei poveri, la città moderna e le sue periferie, la città del passato e quella di recente costruzione. E tutto si giustappone senza un ordine.

La città diffusa occidentale e la megalopoli del terzo o quarto mondo sono, per la storica dell’architettura Françoise Choay, le «macchine della crisi economica» e la premessa di disastri sociali ed ecologici (Del destino della città, Alinea 2001). Un’urbanizzazione che continua a crescere, indifferente alle recessioni e agli andamenti demografici, non potrà che avere come esito la sparizione della città, cancellata dal proprio evolvere in una megaurbanizzazione.

 

Perdita di misura e di senso

 

In una città che va perdendo la propria forma anche l’architettura perdela propria misura. È il tono colorito delle pagine dell’architetto e saggista olandese Rem Koolhaas a descriverci con efficacia come il cambiamento nel dimensionamento degli edifici e la ricerca della grandezza come valore in sé siano divenuti involontariamente il programma ideologico ed estetico delle città del mondo (Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet 2006). Edifici fuori scala, indifferenti al contesto, privi di relazione tra loro, il cui unico aspetto degno di nota è la dimensione, si affastellano nelle città e generano un nuovo tipo di città, a Roma come a Dubay, a Londra come a Città del Messico. In questo tipo di città non esiste più dimensione collettiva, anche la strada diviene un puro residuo, un congegno organizzativo, perché l’architettura della grandezza non ha più bisogno della città, è essa stessa la città.

 

Questi processi hanno scala planetaria ed i grandi trend di omologazione che oggi interessano tutte le grandi città del mondo hanno come esito una perdita di senso e di identità. Basta salire sul treno alla stazione di Roma e scendere a Milano o Torino, per ritrovare il morbido abbraccio degli stessi patinati negozi.

La tragedia di molte città del benessere è che si assomigliano tutte, si conformano a un’architettura commerciale e scompare ogni aspetto di imprevedibilità. Infatti, la crisi di identità colpisce in primo luogo quegli spazi pubblici aperti che un tempo si configuravano come fondativi della spazialità urbana, luoghi in cui raccogliersi e rapportarsi con gli altri. Un cambiamento che si traduce in manufatti e architetture, ma si rispecchia anche nei rapporti sociali, sempre più improntati all’individualismo e a una mancanza di cura per lo spazio comune.

 

Una questione culturale e civile

 

Non possiamo però fermarci a constatare solo quanto è andato perduto. Una domanda appare necessaria. È possibile rinunciare alla ricchezza di relazioni e di bellezza che la città storica ha saputo offrire?

La risposta – ancorché negativa (no, non possiamo) – non si presta a facili uscite di sicurezza. Se rinunciare alle qualità narrative, dialogiche e spaziali dello spazio urbano sembra difficile, riproporle nelle loro forme tradizionali appare quasi impossibile.

Allora due strade mi paiono al momento plausibili. Una prima consiste nel tornare a pensare e rappresentare il mondo come rete di luoghi nei quali le persone possano coltivare una dimensione relazionale e di incontro faccia a faccia, non solo come un sistema di reti funzionali all’economia e agli scambi, come suggerisce Françoise Choay.

 

Città vive, che suscitano creatività e senso di appartenenza, che valorizzano le differenze e le integrano sono città che coltivano la propria urbanità. Una parola che esprime sia l’ospitalità dei luoghi, ovvero la loro predisposizione ad accogliere e facilitare le relazioni umane e la comunicazione, che la qualità della convivenza civile, come possibilità di una cittadinanza inclusiva, tollerante e democratica.

L’urbanità è dunque al contempo un carattere dell’habitat, dello spazio fisico, ma anche e soprattutto dell’habitus, ovvero del costume delle persone, del grado di civiltà e di cultura di una comunità, dei comportamenti acquisiti. La qualità e l’abitabilità delle nostre città è questione culturale e civile che dovrebbe occupare un posto di prim’ordine nell’agenda politica.

 

Esercizi di immaginazione

 

Una seconda possibilità consiste nel compiere esercizi di immaginazione. Le diverse forme di città che abbiamo lasciato alle spalle sono sempre state figlie di «un progetto politico e sociale capace di interpretare e dare spazio alla frontiera più avanzata della società del proprio tempo. Spesso è stato annunciato da un progetto della forma fisica della città e del territorio», scrive Bernando Secchi, urbanista e studioso di città. La difficoltà nel leggere l’attuale condizione urbana dipende anche dal fatto che non scorgiamo più alcun legame con un progetto, un’idea, una visione.

 

Oggi sembra andata persa ogni possibilità di riflessione sui mondi possibili, ogni esercizio di immaginazione e tensione utopica, ogni attitudine alla speranza. Quello che manca è proprio questo. «L’utopia si colloca sempre in un punto di crisi e nel punto di passaggio tra un periodo storico e il successivo, quando i caratteri di ciò che sta per avvenire non sono ancora chiari, ed è sempre contestazione del potere», prosegue Secchi.

È urgente uno sforzo di immaginazione collettiva per ripensare i nostri luoghi di vita e le relazioni che ospitano. La questione è troppo importante per pensare di delegarla (solo) a politici, architetti e urbanisti. Ha a che fare con il nostro essere cittadini di questo mondo e di questo tempo.

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