Johannesburg: ripartire dall’Africa

“Non lontano da questa sala conferenze, tredici milioni di persone sono minacciate dalla fame. Se c’è bisogno che qualcosa ci aiuti a ricordare cosa succede quando noi non proteggiamo il futuro a lungo termine del nostro pianeta, esso può essere rappresentato dal pianto e dalle invocazioni di aiuto di questi tredici milioni di anime”. Chi parla è il segretario generale dell’Onu Kofi Annan che scende in campo con tutta l’autorevolezza morale e, purtroppo, l’impotenza pratica della sua carica. In realtà il vertice di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile è stato la più grande assise fra quante finora indette dalle Nazioni Unite, potendo contare sulla presenza di 189 dei 195 paesi membri dell’Onu, accreditati con oltre 64 mila fra delegati ufficiali, diplomatici, leader politici e ambientalisti ufficialmente presenti. Grandi assenti le Organizzazioni non governative che hanno abbandonato il vertice per sottolineare la distanza che le separa da chi continua ad anteporre le parole ai fatti; e, sul versante opposto, il presidente Bush – non gli Stati Uniti che sono comunque rappresentati ad alto livello – forse per rimarcare la distanza che il paese, posto più di ogni altro sotto accusa in questo contesto, vuole prendere dai suoi accusatori. Le emergenze ambientali planetarie sono tante e così gravi che resta assai difficile farsi un’idea abbastanza chiara delle dimensioni reali di ciascun problema e dei possibili rimedi, anche al vertice di Johannesburg. Forse perché le si vogliono affrontare tutte in una volta. Forse perché si è cercato di fare del vertice una ribalta politica a buon mercato, che rende molto sul piano dell’immagine e veicola facilmente gli slogan. La faziosità non aiuta né a capire, né a risolvere i problemi. Certo, gli scienziati non sono ancora tutti d’accordo sulla correlazione diretta fra alcuni dei maggiori fenomeni naturali di devastazione cui stiamo assistendo e le loro cause. Ciò non dovrebbe tuttavia impedire che, pure nel dubbio, si provveda a rimuoverle. Ne abbiamo parlato anche di recente e certo ne riparleremo. Ma i temi affrontati a Johannesburg si spostano in parte dalle considerazioni strettamente tecniche, per sottolineare come sia il modello di sviluppo attuale a venire messo sotto accusa. Esso “è stato conveniente per pochi e disastroso per molti – è ancora Kofi Annan che precisa -: una strada per la prosperità che stravolge l’ambiente e lascia la maggioranza dell’umanità nello squallore, presto si dimostrerà una strada senza uscita per tutti”. Che fare: l’obiettivo per ora può essere quello di applicare i molti accordi già raggiunti. Uno di questi è la sostenibilità, che è anche un requisito preliminare per tutti gli altri. Si direbbe che siamo nell’ovvio, ma che dal dire al fare… E qui si potrebbe iniziare a elencare le colpe. Non lo facciamo. Molto più utile mi pare riconoscere quel che si può raccogliere di positivo.Mai, forse, come questa volta è stato messo al centro l’uomo, con i suoi problemi reali: si pensi soltanto a quello dell’acqua. Se lo faremo davvero tutti – ho voluto evitare di proposito il condizionale – si troveranno certamente anche le soluzioni tecniche per le maggiori emergenze. Del resto, anche i capi di stato e di governo presenti non si sono espressi molto diversamente. Sarà possibile ricordare loro questi buoni propositi, quando nei fatti non li onoreranno? Dopo aver riconosciuto, dunque, questa generale convergenza e la coraggiosa posizione di traino presa in questo senso dall’Unione europea, si può pure plaudire alla resipiscenza di due grandi inquinatori, come Russia e Canada, che si sono detti decisi a firmare gli accordi di Kyoto. Quanto agli Stati Uniti, non resta sperare che il progressivo crescente isolamento nel quale vengono a trovarsi affretti i tempi di una tardiva, ma indispensabile convergenza. E, insieme a loro, auspicare anche quella di quanti, fra i paesi in via di sviluppo, non hanno voluto firmare gli accordi sull’energia bocciando la richiesta europea di fissare l’obiettivo del 15 per cento di fonti rinnovabili entro il 2010. Come sappiamo, l’avventura dell’uomo sul pianeta prese le mosse dall’Africa australe, dove i paleontologi hanno rinvenuto le tracce dell’inizio. Divenuto cosciente e sapiente, per milioni di anni l’uomo ha progredito, prendendo possesso di tutto ciò che riteneva inferiore a lui, le cose e gli animali. Illudendosi addirittura di poterlo fare anche con i suoi simili, in- ventò pure la schiavitù. Le risorse del pianeta gli erano sembrate inesauribili. Oggi sappiamo che non è così, e la corsa al loro accaparramento si è fatta ancora più frenetica e discriminante. La ricchezza e il potere di pochi stanno di fronte alla miseria di troppi. Ma possiamo evitare che si prospetti o si perpetui, dove già esiste, una nuova schiavitù per una larga porzione di umanità: quella indotta dal bisogno. Ripartire in qualche modo dall’Africa, cioè dagli ultimi, dopo questa presa di coscienza che, al di là delle diatribe, qui a Johannesburg è cresciuta. E si è fatto più evidente che l’avventura dell’uomo sulla Terra potrà riproporsi solo nel segno della solidarietà.

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