Je suis haitien

La prima volta che arrivai in questo paese, nel 2001, mi fermai a Miami per cambiare aereo. Il tassista, ad un semaforo, si era fermato a parlare attraverso il finestrino con un altro tassista. Gli chiesi: Che lingua ha usato?. Era riluttante, poi, con una certa forza: È creolo. Lo sa che cosa è il creolo? . Non gli andava di dire che veniva da Haiti, e divenne aggressivo, in difesa della propria nazionalità, quando dovette ammetterlo. In un libro di Marc L. Bazin, primo ministro ad Haiti tra il 1992 e il 1993, trovo un episodio analogo. Il tassista disse a Bazin: Sono stanco di avere vergogna. Non dico più che sono haitiano. Eppure, Haiti è stata la prima Repubblica nera: un punto di riferimento per tutte le lotte di liberazione dei popoli dell’America Latina. Haiti ha espresso figure umane leggendarie, come quella di Toussaint Louverture, un vero e proprio genio nero che riuscì a trasformare una insurrezione di schiavi in un progetto di liberazione politica nazionale. Il popolo haitiano ha un orgoglio che la miseria non riesce a distruggere. Tra il popolo c’è molto analfabetismo. Ma esiste anche una classe intellettuale raffinata, che ha studiato in Francia o negli Stati Uniti: i più sono rimasti all’estero; ma molti sono tornati, nella speranza di risorgere non individualmente, ma insieme al loro popolo. La cultura e l’intelligenza, in una condizione di miseria, danno una consapevolezza che rende il dolore molto più acuto. Come si è arrivati a questo punto? Ad Haiti i problemi hanno lunga data. Ma la mazzata finale è venuta da Aristide. Sacerdote salesiano, ha aderito alla teologia della liberazione, che ha trasformato in vera e propria ideologia politica: dalla sua chiesa della bidonville di Cité Soleil ha preparato la propria ascesa. I poveri hanno cominciato a riconoscerlo come un moderno messiae lo hanno votato, portandolo alla presidenza della Repubblica nel 1991. Ma già nel settembre dello stesso anno un colpo di stato militare lo toglie dal potere e lo costringe all’esilio negli Stati Uniti. Rimesso al proprio posto dai marines nel 1994, alle successive presidenziali impose un proprio uomo, e riprese la presidenza nel 2001. La marcia di Aristide verso la costruzione di una vera e propria dittatura, e la conseguente paralisi politica, fanno precipitare la credibilità del paese. I crediti e gli aiuti internazionali sono bloccati. L’economia è ferma. La gente tira avanti con le rimesse degli emigrati, con gli aiuti delle organizzazioni non governative, con l’azione caritativa delle chiese. Haiti importa dieci volte più di quello che esporta. Chi può, fugge. Quattro anni fa ero arrivato ad Haiti su richiesta dell’arcidiocesi di Port-au-Prince, per studiare la possibilità di dare vita ad una scuola di formazione politica per i giovani. L’esperienza delle scuole italiane Res nova e del Movimento politico per l’unità di Chiara Lubich si era fatta conoscere fin lì. Sapevo come si fa una scuola, anche se ero cosciente che ogni paese ha una originalità che può cambiare le carte in tavola. Ma non mi aspettavo quello che, in effetti, ho trovato. Verso la fine del Settecento, durante la loro rivoluzione, gli haitiani proclamarono, come a Parigi, ma contro Parigi, libertà, uguaglianza, fraternità. Che cosa ne era rimasto? Haiti, pensavo, non ha né libertà né uguaglianza: entrambe, poi, a questo punto, dipendono in gran parte dall’azione degli altri. La fraternità, invece, gli haitiani possono realizzarla senza dipendere da nessuno e, a partire da questa, cercare di muoversi anche verso le altre due: è la cosa più difficile, con un passato recente di persecuzioni, torture, omicidi politici. Ma ad Haiti, ho costatato, molti sono pronti ad accettare questa sfida, ad unirsi per raggiungere un obiettivo di bene, sia esso una scuola o un nuovo regime politico. Questi i miei pensieri di quattro anni fa. Oggi, dopo la partenza di Aristide, la situazione è cambiata, si sono aperte le possibilità che fino a ieri sembravano un sogno. Come ci si è arrivati? Amiot Metayer era un noto capobanda che aveva dato alla sua organizzazione popolare il nome, singolarmente appropriato, di Armée cannibale, e operava a Gonaives per conto del presidente, per reprimere qualunque forma di scontento e opposizione. All’interno delle pressioni che l’Organizzazione degli Stati Americani (Oea) faceva sul presidente Aristide perché desse segni di applicare una qualche forma di giustizia, spiccava proprio il nome di Metayer. Nel settembre del 2003, il nuovo ambasciatore statunitense ad Haiti avanza delle richieste ad Aristide. Il discorso può essere riassunto più o meno in questi termini: ti lasciamo al potere fino alla fine del mandato, ma devi dare prove concrete di ristabilire la legalità nel campo del traffico di droga e della giustizia. Due giorni dopo l’incontro dell’ambasciatore con Aristide, Metayer viene trovato massacrato; il membro della banda che lo aveva tradito, venuto a Port-au-Prince a riferire, viene ucciso a sua volta. L’Armée cannibale si rivolta contro il presidente; cacciare Aristide per vendicare Metayer diviene una missione mistica. Da allora, di fatto, il governo perde il controllo di Gonaiver; finché il 5 febbraio, l’Armée cannibale alza il livello dello scontro: assalta la caserma della polizia e assume il controllo totale della città. A quel punto arriva Guy Philippe. 36 anni, ex commissario di polizia addestrato in Ecuador; due anni fa aveva lasciato Haiti perché sospettato di un tentativo di colpo di stato. Che cosa ci sia dietro queste accuse è difficile dire; sta di fatto che, con Philippe, lasciarono il paese alcuni altri funzionari di polizia: tutta gente che difficilmente si sarebbe adattata al progetto di Aristide, che tra il 2002 e il 2003 aveva messo a capo della polizia uomini suoi, scavalcando e spodestando i poliziotti di carriera. Guy Philippe, rifugiato nella Repubblica Dominicana, oltre agli ex poliziotti, ha coalizzato intorno a sé anche gli ex militari che, nel 1994, Aristide aveva messo sulla strada, sciogliendo l’esercito senza riconoscere alcun diritto, dopo il suo ritorno imposto dagli Stati Uniti. Ha costituito così un nucleo di non più di due-trecento uomini, armato in maniera approssimativa, col quale ha lanciato l’insurrezione ad Haiti arrivando, in breve, alle porte della capitale. Un’azione di popolo Ma la resa di Aristide non è frutto solo dell’azione di Philippe e delle pressioni internazionali: gli haitiani se la sono conquistata. Gli studenti, anzitutto, hanno giocato un ruolo importante. Fin dall’autunno avevano deciso di assumersi il rischio di uno scontro diretto, dichiarando sistematicamente la loro opposizione al governo e al presidente. Il 5 dicembre 2003, per la prima volta nella storia di Haiti, la polizia, accompagnata anche dalle squadracce di Aristide e da gente del partito di governo Lavalas, è entrata nell’università, ha picchiato gli studenti e spezzato le gambe al rettore. In seguito a questi fatti, è sorto un movimento di opposizione dal basso che non aveva precedenti, e che si è sommato agli avvenimenti dei mesi successivi. La Convergenza democratica (composta dai partiti di opposizione) e il Gruppo 184 (che raggruppa altrettante organizzazioni della società civile: sindacali, studentesche, femminili, professionali, ecc.) si sono riuniti nella Piattaforma democratica, che rappresenta ormai l’insieme delle coscienze libere del paese. Al culmine della crisi gli Stati Uniti, in particolare nella persona di Roger Noriega, sottosegretario del Dipartimento di stato Usa per l’America Latina, esercitano il massimo della pressione sulla Piattaforma democratica perché accetti un compromesso con Aristide. Pressione che si concentra soprattutto su André Apaid, portavoce della Piattaforma. Colin Powel gli telefona tre volte. Ma Apaid tiene duro, e la risposta è sempre la stessa: Arisitide è il problema; non si può risolvere il problema se si lascia in piedi la sua causa. Il 25 febbraio, mercoledì delle Ceneri, la Francia prende posizione direttamente contro Aristide; poco dopo, la Casa Bianca fa propria questa posizione. Aristide capisce di avere le spalle al muro e nella notte tra il sabato e la domenica, pressato dagli ambasciatori di Usa e Francia, scrive la lettera di dimissioni. Lascia il paese il 29, la mattina presto, intorno alle sei e mezzo: nello stesso momento in cui il papa, all’Angelus (Roma è avanti di sei ore), chiede alle autorità haitiane di trarre le conseguenze dalle situazione. Una posizione della Santa Sede che, certamente, era già nota nel circuito diplomatico. Anche la Conferenza episcopale haitiana, del resto, premeva sul presidente, per un cambiamento radicale, fin dal mese di novembre. Nei giorni successivi alla resa di Aristide si realizza qualche cosa che ha del prodigioso: in soli 17 giorni e nel pieno rispetto della legalità, si sceglie un nuovo presidente della Repubblica, si insedia un Consiglio dei saggi, rappresentativo delle principali realtà del paese, che dovrà indicare le linee di azione durante il periodo di transizione; si nomina un nuovo Primo ministro che in quattro giorni presenta un governo tecnico. Subito dopo, si compone un Consiglio elettorale, che dovrà organizzare e gestire le prossime elezioni: presidenziali, politiche, amministrative. L’allora nunzio della Santa Sede ad Haiti S. E. mons. Luigi Bonazzi, una delle personalità che con impegno intelligente e costante hanno maggiormente aiutato il paese in questi anni, dichiarava: La decisione del presidente Aristide di dimettersi, e la pronta accettazione di tali dimissioni da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, sono state un fatto salutare per il paese, che ha ora la possibilità di scrivere una pagina nuova della sua storia. C’è oggi uno sforzo sincero da parte dell’opposizione, della società civile, e della componente moderata dell’ex partito di governo Lavalas, di collaborare per superare il vizio inveterato dell’esclusione, in base al quale quando qualcuno, in passato, prendeva il potere, lasciava fuori gli altri. C’è la volontà di collaborare, di gestire insieme il paese soprattutto in favore dei poveri che sono i veri esclusi. È in queste parole, credo, la chiave per comprendere l’opportunità storica che si è aperta ad Haiti, la sfida di sottrarsi a quella sorta di maledizione haitiana in virtù della quale chi arriva al potere si trasforma in tiranno. Oggi ad Haiti esiste la volontà di costruire insieme, esistono intelligenze e capacità che hanno deciso di mettersi al servizio del bene comune e non alla ricerca del potere personale. Esiste davvero l’opportunità perché ciascuno possa tornare a dire, con fierezza: Je suis haïtien. UNA SCUOLA DI FRATERNITÀ La Scuola di formazione sociale e politica Toussaint Louverture viene annunciata nel corso di un Congresso internazionale tenuto a Port-au-Prince nel marzo del 2002. Promosso da mons. Miot, arcivescovo di Port-au-Prince, in collaborazione con varie Università d’America e d’Europa, e con la Fondazione Tony Weber, ha lo scopo di presentare al paese la scuola come un’iniziativa della chiesa, in totale autonomia dal potere politico. L’altro obiettivo degli organizzatori, è di dare la massima visibilità alla scuola, per metterla al riparo da eventuali ingerenze o repressioni. E all’ideale di Chiara Lubich si ispira esplicitamente la scuola. Pur essendo un’iniziativa dell’arcidiocesi della capitale, si struttura sul modello delle scuole Res nova italiane, dalle quali prende la metodologia e i contenuti. Rivolta ai giovani, si propone uno degli obiettivi più importanti nella Haiti di oggi: formare dei cittadini politicamente preparati e attivi, capaci di esprimere una classe politica vera, che distingua chiaramente fra il bene comune e l’interesse personale. La scuola vuole produrre una figura di politico diversa dal passato, che sia espressione di una comunità, e che sappia sanare le divisioni e costruire. Dopo due anni, che bilancio si può fare dell’esperienza? Lo chiedo a padre Bonard Joseph, salesiano, rientrato lo scorso anno da Roma, dove ha completato i suoi studi di filosofia. È una delle figure di riferimento per i giovani della scuola Toussaint Louverture: C’è uno spirito molto buono fra gli studenti, sono molto interessati e vogliono vivere l’esperienza della fraternità; ci troviamo due volte alla settimana e, ad ogni lezione, vogliono un tempo per vivere la fraternità, che è altra cosa dal dibattito: significa scambiarsi esperienze personali, che riguardano la loro vita e la loro fede. Per la verità anche i dibattiti durante le lezioni sono orientati alla fraternità. Ma vogliono andare più lontano, vogliono essere moltiplicatori di questo ideale di fraternità al di fuori della scuola, nelle loro famiglie, nei quartieri, nei luoghi di lavoro. Anche in questo senso, la scuola ha un avvenire nel paese. Durante il periodo dell’insurrezione avete sospeso le lezioni? Qualche studente ha vissuto brutte esperienze? È una cosa che mi ha molto stupito, perché anche nei giorni delle violenze, delle manifestazioni, quando la gente lasciava le strade vuote, i giovani erano là, attendevano il professore.Abbiamo cercato di analizzare la situazione, ci siamo chiesti come intervenire, e intendiamo far valere le idee e l’esperienza della scuola in questo nuovo periodo che si è aperto nel paese. Naturalmente, anche loro hanno partecipato agli avvenimenti, ma sempre con un comportamento nello spirito della fraternità. Dialogo con tre personalità di primo piano nella trasformazione haitiana. ANDRÉ APAID: è il momento di unire Imprenditore, 52 anni, sposato, 4 figli e 5 nipoti. Non è impegnato in un partito, ma nella costruzione dell’unità delle forze della società civile. È coordinatore del Gruppo 184, che raccoglie, appunto, altrettante organizzazioni sociali; durante la crisi è stato il portavoce della Piattaforma democratica, che riunisce tutta l’opposizione. Mio padre era presidente dell’associazione degli industriali, che chiedeva la democrazia nel paese. Aveva conosciuto l’esilio dal 1962, sotto i Duvalier; la famiglia era separata: una parte all’estero, e due figli qui ad Haiti: ci tenevano in ostaggio. Sono cose che ci hanno marchiato. Quando, sotto Aristide, si sono presentati i segni di un dominio totalitario, dopo le elezioni del 2000 abbiamo cominciato a porre il problema della democrazia nel paese, con uno stile moderato e con l’intento di costruire l’unità, su questo obiettivo, di tutte le classi sociali. Com’era la vita di un imprenditore sotto Aristide? Per niente facile, perché il potere non autorizzava la messa in campo di un potere economico o sociale autonomo. Il nostro impegno di questi anni è stato quello di costruire un’unità fra tutte le espressioni della società civile per trovare una forma di compromesso col potere; quando è stato chiaro che nessun accordo era possibile, siamo andati più lontano. Negli ultimi tre anni abbiamo subito vari tipi di intimidazioni. Hanno più volte mitragliato la mia fabbrica, poi ci sono stati gli arresti, i dossier fabbricati contro di me. Ma siamo stati protetti: molte preghiere, una comunità che ha compreso il senso della nostra battaglia, qualche appoggio diplomatico che è intervenuto al momento giusto, alcune buone relazioni internazionali che abbiamo coltivato. Siamo stati benedetti. La sua visione politica è liberale? Certamente. L’idea è che per cambiare il panorama politico e guadagnare la libertà economica, sociale e politica, è necessaria un’unità della società civile che colmi il deficit delle istituzioni e delle strutture. Bisogna, ora, organizzare delle buone elezioni; e poi aiutare tutti i settori economici e sociali a darsi una buona strutturazione. Oggi è il momento di unire, di lavorare per stabilire le regole del gioco. ARIEL HENRY: credere nel dialogo Esponente del Partito socialdemocratico e della Convergenza democratica, dopo la partenza di Aristide è diventato uno dei sette membri del Consiglio dei saggi. 55 anni, nato a Port-au-Prince, cristiano episcopaliano, è sposato, ha tre figli. Neurochirurgo, ha compiuto gli studi in Francia, ed è ritornato ad Haiti nel 1985. Sono tornato perché convinto di dover condividere col mio paese la capacità professionale che avevo acquisito. È vero che si raccoglie quel che si è seminato: nei giorni dei disordini, quando le bande si sono avvicinate alla sua casa, la gente del quartiere si è stretta intorno alla sua abitazione e alla sua famiglia, impedendo che venisse fatto loro del male. Al mio rientro in Haiti mi sono reso conto di quanti fossero i diseredati. Mi sono accorto della differenza fra il bene che io potevo fare a un ristretto numero di persone come chirurgo, e la grandezza del bisogno e della disperazione che c’erano nel paese. E sono entrato in politica. Sono stati anni di lotta, durante i quali ho avuto molti compagni che si sono ritirati, altri che sono morti. Non ho mai esercitato funzioni pubbliche, mi sono dedicato soprattutto a costruire il partito, a creare una rete di relazioni. La mia appartenenza al Consiglio dei saggi è espressione di un lavoro collettivo nel quale intendo rimanere. E oggi? Oggi viviamo un grande momento di ricostruzione dello stato e delle istituzioni. Il governo attuale, che potremmo definire tecnocratico, è composto da gente onesta. Ma la grande sfida che abbiamo davanti è quella di una riconciliazione nazionale, che non è facile: ci sono profonde ferite e divisioni, ma non possiamo fallire questa occasione per ricostruire il paese. MICHAEL (MICHA) GAILLARD: un’occasione storica È segretario generale aggiunto del Conacom, Il Partito del Congresso nazionale dei movimenti democratici, creato all’indomani della partenza di Duvalier attraverso il raggruppamento di varie forze della società civile, poi trasformatosi, nel 1987, in partito politico. È portavoce della Convergenza democratica, che raggruppa i partiti di opposizione. Sposato, due figli, ha studiato in Francia. Fisiologo, insegna alla Facoltà di medicina a Port-au-Prince. Al ritorno di Aristide, nel 1995, io ero ad accoglierlo; facevo parte della commissione presidenziale di Aristide e lo rappresentavo, ad Haiti, durante il periodo del colpo di stato. Aristide era un presidente regolarmente eletto dal popolo ed estromesso illegalmente dai militari: io credevo nel rispetto delle elezioni e per questo ho lottato per farlo ritornare. Ma avevo una posizione politica diversa e infatti, al suo rientro, mi sono collocato all’opposizione. Come valuta i fatti di questi ultimi mesi? Il rovesciamento di Aristide è maturato attraverso un insieme di avvenimenti, che hanno creato un movimento unitario quale non si era mai visto negli ultimi due secoli. Un fenomeno analogo a quello del 1804, quando la riunione di numerose forze sociali – anche contraddittorie fra loro – produsse l’indipendenza. C’è una connessione fra quanto è successo nel 1804 e oggi. Allora noi abbiamo conquistato la libertà, come abbiamo fatto oggi; allora abbiamo conquistato, teoricamente, la Repubblica, l’uguaglianza, la fraternità; ma, in seguito, abbiamo fallito in queste cose. Oggi abbiamo la possibilità di lavorare per avere una Repubblica e un bene comune come ce l’hanno tutti i paesi democratici, una legalità, possiamo lavorare con lo stile della fraternità.

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