Intervista a Franco Roberti

Nato a Napoli nel 1947 e magistrato dal 1975, è stato nominato nel luglio 2013 procuratore nazionale della Direzione nazionale antimafia istituita nel 1992. La competenza sull’antiterrorismo si è aggiunta nel 2015  

Dottor Roberti, cosa ha significato l’anno 1992? Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati uccisi 25 anni fa, per un parere condiviso da molti, proprio per impedire loro di ricoprire il ruolo di procuratore nazionale antimafia. “Cosa nostra” aveva capito che quello era un momento nevralgico di svolta dei rapporti tra Stato e mafia. La sentenza della Cassazione del gennaio 1992 aveva confermato l’impianto delle accuse mosse contro l’organizzazione mafiosa dai due colleghi magistrati. Si trattava della base giuridica e giudiziaria necessaria per debellare in maniera efficace il potere mafioso.

Cosa è cambiato dopo quelle stragi? La criminalità mafiosa è ancora molto forte nel nostro Paese nonostante i successi che abbiamo ottenuto, a partire dal contrasto sul piano personale e su quello patrimoniale, perché esiste una vasta area grigia dove si incontrano poteri occulti con la malavita organizzata e quella prettamente di carattere economico. Anche oggi le organizzazioni mafiose sono infiltrate nelle istituzioni, nelle pubbliche amministrazioni e tendono a condizionare in certi  momenti la politica nel nostro Paese. Ma il 1992 segna il punto di svolta decisivo nel rapporto tra Stato e mafia che fino ad allora era segnato da una certa tolleranza e quasi di riconoscimento reciproco. La sconfitta delle mafie da allora non è solo un auspicio, ma un obiettivo raggiungibile.

Secondo Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo, «si mossero altre forze che utilizzarono la mafia come braccio armato per i loro sofisticati disegni di destabilizzazione politica»… È quella che io chiamo area grigia, dove si incontrano gli interessi della criminalità economica con quella mafiosa ed è un fenomeno non solo italiano se si considera la sua diffusione a livello mondiale. Se non debelliamo questo tipo di potere, lo sviluppo economico generale, non solo quello delle imprese, è destinato a restare bloccato.

Eppure un ministro dei Lavori pubblici, tempo addietro, ha affermato che bisogna realisticamente convivere con la mafia… Purtroppo è quello che pensano in molti che considerano anche la corruzione come necessaria per muovere l’economia e vedono l’evasione fiscale come una legittima difesa contro lo Stato esattore. Se non debelliamo questa cultura, resta difficile andare avanti.

In questo senso non esiste solo la capacità di riciclare e far perdere le tracce ai capitali mafiosi investiti su scala planetaria da insospettabili colletti bianchi, ma in molte inchieste spunta la presenza della massoneria deviata… In Calabria la magistratura ha confermato i legami tra massoneria occulta e ’ndragheta. D’altra parte è inevitabile l’incontro tra interessi inconfessabili e la criminalità che fa dell’omertà la propria forza.

Sulle “massomafie” si sta concentrando recentemente la commissione parlamentare antimafia… Un lavoro importante che si avvale della collaborazione della Procu- ra nazionale antimafia. Credo che questi segnali istituzionali siano decisivi.

Eppure, come nota Nando Dalla Chiesa, la lotta alla mafia non è nell’agenda degli ultimi governi, anzi sembra che dia fastidio chi ne parla oltre i momenti celebrativi… Nel nostro Paese la lotta alla mafia non è stata una priorità dichiarata e soprattutto praticata da alcun governo. Non lo è stata mai.

Lo dice in maniera assoluta? In Italia il contrasto alla mafia è avvenuto sempre su basi emergenziali, come reazione cioè alle stragi. Se non scoppia il caso clamoroso, se nessuno spara, è come se il fenomeno non esistesse. Ed è, invece, nel silenzio e nella scarsa attenzione delle istituzioni che le mafie stringono gli affari più importanti e consolidano il loro potere. Solo dopo gli eventi tragici del ’92 abbiamo avuto strumenti normativi prima inesistenti. Si pensi alla confisca dei beni mafiosi anche quando sono intestati ai prestanome (cosa non prevista negli altri Paesi). Ma non esiste un piano generale di contrasto alle mafie a tutti i livelli.

Infatti i successi nel contrasto alle mafie si arenano quando bisogna gestire i beni confiscati ai mafiosi.Per questo motivo sollecito fortemente la riforma del codice antimafia. Abbiamo tanti beni confiscati (tra cui ben 2.500 società) che sono sempre di difficile gestione. Abbiamo un’agenzia che se ne occupa ma con risorse non sufficienti e senza poter agire in sinergia con enti locali e territorio. La mancata destinazione di questi beni a finalità sociali rappresenta un fallimento verso la collettività, ma servono soldi, persone e competenze che non arrivano.

Nel frattempo la finanza mafiosa, che di soldi ne ha fin troppi, cresce con l’usura e l’azzardo… L’unica strada efficace consiste nel far accedere famiglie e imprese al credito legale. In realtà, di fronte alla stretta creditizia, cresce anche la forma abusiva del credito che presta soldi a condizioni simili a quelle delle banche.

In questo quadro, il capo della Polizia Gabrielli ha detto che l’azzardo è l’eldorado della criminalità… Abbiamo una legislazione che, di fatto, lo ha incentivato incrementando l’interferenza delle organizzazioni criminali, come diciamo da anni nella relazione annuale della Direzione nazionale antimafia.

Manca quindi una visione politica generale… Una vera priorità, se è tale, non ammette limiti di spesa. Così la mancata riforma di una giustizia che resta lenta e inefficiente è funzionale agli interessi delle “aree grigie”. C’è bisogno invece di un’opinione pubblica forte ed esigente ma che appare invece spesso rassegnata.

In questo senso non ha taciuto la responsabilità della Chiesa… L’ho detto e ripetuto anche in un recente convegno internazionale voluto da papa Francesco in Vaticano. La Chiesa può muovere le coscienze. Nei confronti delle mafie si è mossa con molta lentezza. La Cei in un documento del 2009 ne ha parlato come “strutture di peccato” definendo i mafiosi scomunicati “latae sententiae” (in maniera automatica) ma da quella pronuncia non è seguita la mobilitazione che ora vedo, invece, con questo papa.

Nel 2016 molti preti e religiosi hanno aderito alla carta di Fondi di impegno contro mafia e corruzione… Sono segnali importanti, ma c’è bisogno di continuità nel formare non solo al rispetto della legge ma all’applicazione dei principi costituzionali. Non dobbiamo disperare, chi crede di non poter vincere ha già perso. Ma occorrono testimoni credibili, non solo credenti, come diceva il giudice Livatino.

Ma come si può sperare se si considera, con rispetto e senza pregiudizio, la situazione di Napoli che sembra esposta – si pensi alle sparatorie nel Rione Sanità – alla malavita organizzata, pur se da questa città, ricca di grandi risorse, provengono magistrati come Roberti o Cantone? Napoli è da sempre città di grandi contraddizioni con stagioni di stretti rapporti tra camorra e potere politico economico. Diversamente da “Cosa nostra”, la camorra ha avuto rapporti di subalternità rispetto alla politica, una specie di sostituzione a quelle funzioni pubbliche che i politici non potevano o volevano compiere. Si pensi alla gestione dell’ordine pubblico e al mercato illegale che ha dato lavoro a migliaia di famiglie che non avevano alternative. A Napoli hanno convissuto due tipi di mercati (legale e illegale) di eguali dimensioni con la conseguenza che nell’area metropolitana si è avuto, di solito, un rapporto di dialogo e non di repressione tra potere politico e camorra. Una sorta di tolleranza e quasi di connivenza dei pubblici poteri con l’organizzazione camorristica che ormai è venuta meno anche se gli spazi controllati dalla camorra tradizionale non sono stati ancora occupati del tutto dallo Stato creando  situazioni di serio sbandamento nell’ordine pubblico.

In che senso? Nel senso che imperversano bande giovanili non controllate dalla malavita organizzata e ancora neanche dallo Stato. Una situazione inquietante a cui bisogna porre rimedio.

A proposito di controllo del territorio, Carlo Jean, un generale esperto di strategia, ha detto che il potere mafioso impedisce l’espansione del terrorismo islamista in Italia. Cosa ne pensa? Le mafie non hanno mai contrastato il terrorismo, anzi sono cresciute in Italia e si sono rafforzate negli anni ’70 e ’80 perché le migliori energie sono state concentrate nella repressione del terrorismo anche dopo che “Cosa nostra” aveva cominciato a colpire le istituzioni con la strage di carabinieri a Ciaculli nel 1965 e l’assassinio del procuratore generale di Palermo Scaglione nel 1971. Senza contare, per fare qualche esempio di collaborazione, i rapporti tra brigatisti rossi e camorra a Napoli o tra terrorismo nero e banda della Magliana a Roma. Il terrorismo islamista, poi, si è alimentato dal mercato dei documenti falsi di cui Napoli è la capitale mondiale, mentre la camorra gli ha offerto basi logistiche agli inizi degli anni 2000.

Napoli è anche il luogo della sua formazione ignaziana (studi presso i gesuiti, ndr). Ultimamente è intervenuto in un incontro sulla giustizia riparativa. Non solo punitiva. Di fronte ai mafiosi prevale, invece, l’idea che non vi sia spazio per una redenzione, un cambiamento reale…. Io invece credo che non sia così. Credo profondamente ai principi fondamentali dalla nostra Costituzione che, messi in pratica, costituiscono l’arma più efficace contro le mafie e contro il terrorismo.

Infine, ci può dire una persona che è stata fondamentale nella sua scelta di vita? Potrei citarne molte, ma devo dire che per me è stata determinante la lettura dei testi di don Lorenzo Milani. Pagine sulle quali torno spesso.

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