Incondizionatamente europeisti

¦ La notizia è arrivata inattesa come un fulmine a ciel sereno. L’Enel stava per lanciare un’Opa, cioè un’offerta pubblica d’acquisto che le avrebbe consentito il controllo dell’omologa francese Suez, quando il governo transalpino l’ha preceduta accorpando Suez a Gas de France con un’operazione che assomiglia tanto ad una nazionalizzazione. Più attenti al teatrino della campagna elettorale che alle grandi manovre della politica energetica, appannaggio della stampa specializzata ad uso quasi esclusivo degli addetti ai lavori, gli italiani hanno accusato il colpo con sorpresa e disappunto. In seconda battuta si è saputo che un qualche preavviso della manovra difensiva francese c’era stato. E tuttavia ciò che è successo è apparso comunque grave. Passi lo schiaffo dei francesi all’Italia, perché ci siamo abituati.Ma si è trattato anche di uno schiaffo all’Europa: quella comunità non solo economica che da mezzo secolo si viene faticosamente costruendo, e che abbiamo quasi affettuosamente chiamato casa comune. A questa indignazione generale suscitata al primo impatto, ha fatto seguito però una parola d’ordine tesa a sdrammatizzare. E ci si è concentrati soprattutto ad analizzare i fatti. Chi si è preso la briga di verificare il bilancio delle acquisizioni e delle cessioni avvenute in Francia, ha costatato che solo nel 2005 i francesi hanno rilevato aziende estere per più di 60 miliardi di euro, contro cessioni per appena 25 miliardi. E la forbice nei confronti dell’Italia è ancora più divaricata: 17 miliardi contro 500 milioni, grazie a leggi opportunamente calibrate allo scopo. Si capisce come lo stesso Prodi abbia proposto qualche ritorsione. La partita resta comunque momentaneamente aperta. Bruxelles è stata incaricata di verificare se sono state violate le regole del mercato. Se ne sta discutendo.Ma appare chiaro che ne è stato quanto meno violato lo spirito. Non è di oggi la teoria secondo la quale, quando i rapporti economici sono ispirati al protezionismo, i rapporti politici sono improntati alla rivalità, da cui aumentano i rischi di conflitto e, al limite, di guerre; mentre il libero scambio genera rapporti ispirati alla fiducia. Non era forse nata la Comunità europea, all’indomani del Secondo conflitto mondiale, proprio dal presupposto che mettendo in comune le risorse fondamentali – si era iniziato dal carbone e dall’acciaio – e aprendo i mercati con l’abbattimento delle barriere doganali, si sarebbero evitati quei conflitti che troppo volte avevano devastato il continente? Nessuno stato membro dovrebbe pertanto coltivare il protezionismo. Non dimentichiamo che è proprio grazie al libero commercio che è stato possibile aumentare la ricchezza in tutta l’Unione. Semmai è verso l’esterno che l’Europa dovrebbe avere un atteggiamento più guardingo per difendersi dall’aggressione economica dei paesi asiatici verso i quali non esiste alcuna reciprocità perché si avvantaggiano di un mercato del lavoro assai diverso dal nostro. Sussistono tuttavia ancora regole diverse nei vari paesi europei che consentono comportamenti così marcatamente asimetrici; e ciò mina ulteriormente la fiducia nell’Unione, già così compromessa col rigetto francese della Costituzione. L’Europa, che si vuole abbia un potenziale economico ancora superiore a quello degli Stati Uniti e dell’area del Giappone, non lo sta sfruttando: manca di una cultura adeguata. Si sono aperti dibattiti interessanti su questi problemi. Ci auguriamo che alle parole seguano i fatti. Perché la prosperità si raggiunge allargando non chiudendo le frontiere dello stato-nazio

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