Riccardo II

Da uno dei testi shakesperiani meno conosciuti al tema della parola specchio della nostra cultura, fino agli stereotipi della femminilità e all'emozione primaria dell'orrore. Cè n'è per tutti i gusti

 

Il Riccardo II di Peter Stein

Uno dei testi shakesperiani meno conosciuti, messo in scena dal regista tedesco Peter Stein, che affida il ruolo ad una interprete femminile: Maddalena Crippa. “Richard II” occupa un posto particolare nell’opera di Shakespeare – spiega il regista– anche fra le sue tragedie dedicate ai Re. Il dramma tratta esclusivamente della deposizione di un re legittimo. Un tema politico eminente che facilmente si può trasporre ai nostri tempi: è possibile deporre un sovrano legittimo? Il nuovo re non è un usurpatore? Una tale deposizione non è simile all’assassinio di ogni ordine tradizionale? Durante il suo regno Richard II ha messo contro di sé tutte le forze sociali: egli ha sfruttato il proprio potere in tutte le direzioni immaginabili, ha sconfinato le proprie competenze e si è preso ogni libertà, anche sessuale. È un giocatore, un attore, ma pur sempre un re che, anche dopo la sua deposizione, rimane un re; mentre il suo rivale – che prende il suo posto sul trono come usurpatore – genera esattamente lo stesso meccanismo di ostilità contro il suo potere, poiché tale potere si basa sul puro arbitrio.

“Richard II”, di William Shakespeare, traduzione Alessandro Serpieri, riduzione e regia Peter Stein, con Maddalena Crippa, Alessandro Averone, Gianluigi Fogacci, Paolo Graziosi, Andrea Nicolini, Graziano Piazza, Almerica Schiavo, Giovanni Visentin, Marco De Gaudio, Vincenzo Giordano, Luca Iervolino, Giovanni Longhin, Michele Maccaroni, Domenico Macrì, Laurence Mazzoni, scene Ferdinand Woegerbauer, costumi Anna Maria Heinreich, luci Roberto Innocenti. Produzione Teatro Metastasio di Prato. A Pistoia, Teatro Manzoni, dal 17 al 19/11; Bari, teatro Petruzzelli, 22 e 23; Barletta, Teatro Curci, dal 24 al 26; Cesena, Teatro Bonci, dal 30/11 al 3/12. In tournèe.

 

Solo 140 parole per parlare

Ogni civiltà è fondata sul linguaggio. Il livello di crescita di una società si misura con la complessità della sua lingua. La democrazia liberale, la più evoluta forma di governo di una società, dovrebbe basarsi sulla libertà di espressione. Le parole con cui interagiamo sono lo specchio della nostra cultura e della nostra libertà. Purtroppo non diamo tutto questo valore alle parole. Anzi, le usiamo per mentire, manipolare, per un lavoro di cui non ci importa, per giudicare, litigare, riducendole tutte, spesso, a semplice rumore. Cosa succederebbe se una Legge sulla Quiete imponesse un numero giornaliero di parole che tutti possono usare?  Se fossero 140? Riusciremmo ad ascoltarci di più? O finiremmo per smettere di comunicare? Una giovane coppia, Bernadette ed Oliver, raccontano il tentativo in questa obbligata carestia verbale di trovare una nuova lingua su cui fondare e difendere il loro rapporto, all’interno di un mondo in cui non è solo la loro storia ad essere a rischio, ma la democrazia stessa.

“Lemons, lemons, lemons, lemons” di Sam Steiner, regia Alessandro Tedeschi, traduzione Matteo Curtoni e Maura Parolini, con Loris Fabiani e Elisa Benedetta Marinoni, costumi Luappi Lab, disegno luci e scene Davide Coppo, , produzione Bottega Rosenguild. A Roma, Teatro Belli per la rassegna “Trend”, fino a 16/11.

 

Nata femmina

Il sorriso delle donne si spezza ogni giorno, in ogni luogo, ad ogni età, milioni di volte sotto il peso di usi e costumi di popoli “in via di sviluppo” ma anche sotto il peso di desideri sacrificati, di indoli addomesticate, a favore di interessi omologanti e arroganti di popoli “emancipati”. Ancora prima del femminicidio, della violenza domestica, delle spose bambine, si fa avanti la dimensione più ordinaria degli stereotipi, contro cui l’urlo non sa alzarsi altrettanto immediato. «L’idea di una femminilità “consona” alla “natura” di donna, anche quando non mi limita, mi confonde, e non sempre la colpa è di qualcuno altro. Quelle piccole lotte quotidiane per un’uguaglianza di valore sono da condurre talvolta anche contro me stessa. Quel NO alle libertà violate, laddove pronunciabile, non si accontenti, mantenga la sua forza istintiva anche davanti ad una possibilità negata, perché di questa negazione si nutrono i delitti». Così la coreografa Paola Vezzosi presenta il suo spettacolo creato e danzato con Eleonora Chiocchini, Isabella Giustina, Valeria Secchi.

“Nata femmina” ideazione, regia e coreografia Paola Vezzosi, , disegno luci Luca Chelucchi. Produzione Adarte, con Versiliadanza-Teatro Cantiere Florida. A Firenze, Teatro Cantiere Florida, il 17/11.

 

L’età dell’oro e dell’horror

Il gioco di parole desidera contrapporre il concetto di armonia e prosperità cui rimanda la mitologica espressione “età dell’oro”, all’orrore, inteso non nell’accezione di genere cinematografico, ma come un misto di disgusto e paura, emozione primaria che innesca il meccanismo della fuga. Uguale e contraria al titolo, la composizione coreografica di Riccardo Buscarini si fonda sull’istinto di fuga dall’altro e, allo stesso tempo, sul desiderio di unione con l’altro e trova la sua struttura portante nella ripetizione ciclica di un’unica frase e nella sua progressiva variazione, come suggeriscono i contrappunti de L’arte della fuga di Johann Sebastian Bach da cui è accompagnata. Con quale arma possiamo contrastare la separazione che la paura (inevitabilmente) provoca e renderla uno spazio di fiducia, se non scegliendo di rimanere uniti? L’età dell’horror è una riflessione sul fuggire e sullo stare insieme. Due uomini gravitano in un paesaggio ostile che nella plasticità e resistenza dei corpi si trasforma in uno spazio di ascolto e negoziazione, dove le note rotolano nervose come i secondi di un inesorabile conto alla rovescia.

“L’età dell’horror” di Riccardo Buscarini, con Alberto Alonso, Joahn Volmar. A Milano, Teatro PimOff, il 16 e 17/11.

 

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