In mezzo ai frantumi della storia

«Una “ricostruzione” stava avvenendo in Ferenc, che vedevo muoversi sempre più libero».
Budapest

Prospiciente la piazza chiamata delle Rose, una grande chiesa neogotica domina le aiuole di rose e sovrasta, con le sue guglie, tutti i palazzi che a rettangolo la chiudono. Un’oasi verde in mezzo a tanti edifici che ricordano la grande trasformazione urbanistica di Budapest nella seconda metà dell’Ottocento. Tra le rose un piedistallo ben fatto innalza la statua di santa Elisabetta d’Ungheria.

Mi siedo su una panchina. È forte il ricordo di questa donna anche perché, quando nel 2007 sono stati celebrati gli 800 anni della sua nascita, ho preso parte ad un simposio sull’attualità del personaggio. Regina, langravia della Turingia, assieme al marito Ludwig accolse i frati seguaci di quel ricco mercante di Assisi che un giorno si sentì invitato dal Crocifisso: «Francesco, va’, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina». Sulle orme di Francesco, Elisabetta iniziò la sua ascesa e mosse i suoi passi. Da lui imparò a riconoscere Cristo in ogni prossimo. Presto vedova, spese la sua vita per i poveri. Digiuni e penitenze ne accelerarono la morte. 

In questa chiesa venivo spesso tanti anni fa, ai tempi del regime comunista. Allora era completamente abbandonata. Vetrate rotte, statue ammucchiate negli angoli, capitelli lasciati dove erano caduti. L’intonaco delle pareti gonfio d’umidità cadeva pezzo dopo pezzo. Le grondaie erano state certamente rubate. La riparazione di un edificio così grande e così malridotto mi sembrava impossibile. Non era questa l’unica costruzione condannata a morte. Molti palazzi del Castello o del grande viale che porta alla piazza del Millennium erano abbandonati all’incuria perché simboli di ideologie che il socialismo aveva il compito di cancellare da ogni memoria e da ogni libro di storia.

Passavo di qui perché non lontano abitava Ferenc a cui facevo lezioni di italiano. Quando lo conobbi, ebbi una strana impressione, era come se non parlasse ma piangesse.

Gestiva un bar e, seppur giovane, aveva un matrimonio annullato e una vita disordinata non diversa da quella di altri. Grigia come quella di molti.

Un giorno mi chiese aiuto perché stava ristrutturando il monolocale dove abitava. Tra la polvere, i calcinacci, le scatole di cose inutili, provai la netta sensazione che una “ricostruzione” stesse avvenendo anche dentro quella persona che vedevo muoversi sempre più libera in mezzo alla polvere.

Qualche giorno dopo capitammo in questa chiesa e Ferenc rimase incantato dalla maestosità dell’edificio. Forse non era mai entrato in un luogo di culto. Mi domandò che cosa significasse per me credere. Risposi che la mia fede non sapevo spiegarla perché era un’esperienza d’amore, un misterioso e sempre più preciso dialogo con Gesù, una persona invisibile ma che sentivo agire nella mia esistenza. Ferenc rimase in silenzio. Non aveva altre domande.

Non so esattamente come e quando lui cominciasse a credere. Io vedevo soltanto che giorno dopo giorno aumentava in Ferenc una specie di luce che gli faceva fare dei passi mai fatti prima, come un programma intimo che si manifestava in atti e gesti nuovi. Anche i muscoli del suo viso si distesero.

Qualche tempo dopo chiese il battesimo. Ora Ferenc è sacerdote di un villaggio della grande pianura ungherese. Chiara Lubich, venuta a conoscenza della storia di Ferenc, gli aveva scritto sottolineandogli una frase del Vangelo: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto». Quale chicco di grano era morto?

Guardando ora le statue risalite al loro posto in mezzo a belle vetrate che non fanno più passare vento e uccelli, sembra che mi spieghino che sono loro il chicco di grano e con loro tutti quelli che giorno dopo giorno si allineano con le forze che costruiscono il futuro.

Nei vialetti tra le rose mi soffermo per fotografare la facciata della chiesa e rifletto che solo i santi possono dire che la loro vita è riuscita. Nello stesso momento una signora, che mi ha visto posizionare la macchina fotografica, mi chiede: «È riuscita?».

Sì, la vita di chi sa dare frutto è veramente riuscita! Come Elisabetta d’Ungheria, come Francesco d’Assisi che ci avvertono che è possibile cambiare i meccanismi disumanizzanti delle istituzioni soltanto cambiando i meccanismi che regolano il nostro intimo. Soltanto chi è padrone di sé stesso è capace di influire sulla società presente e futura. Questa operazione è la mistica cristiana.

Le ultime parole di Elisabetta morente furono: «O Maria, assistimi! Il momento è arrivato quando Dio convoca il suo amico alla festa nuziale. Lo Sposo cerca la sua sposa… Silenzio!.. Silenzio!».

Le storie vere producono silenzio.

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